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Prefazione al Mito del XX secolo…vol. I

In occasione del genetliaco di Alfred Rosenberg, colmiamo un vuoto sul portale, ovvero la mancanza della Prefazione al vol. I del “Mito del XX secolo” ristampato nel 2009 dall’Ass. culturale Thule Italia, prima che l’omonima casa editrice rendesse disponibili i restanti due volumi nel 2012.

La prefazione al volume II e III – sempre a cura di Luca Leonello Rimbotti – può essere qui letta: Bellezza e potenza, le categorie del Reich che verrà. Luca Leonello Rimbotti.

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Alfred Rosenberg: Mistica eroica del Corpo di Luce

In un suo scritto del 1997, lo storico della filosofia Giorgio Penzo rilevava che i caratteri ereticali del pensiero del mistico tedesco due-trecentesco Meister Eckhart dovevano essere ri­condotti principalmente alla sua idea di un rapporto diretto tra l’uomo e l’essenza del divino. Tale impostazione dava vita ad una concezione panteista, estranea al cristianesimo, innestata sull’equivalenza di corpo e spirito, di cui faceva parte tutto un filone di pensiero che, dall’Idea­lismo tedesco, lo studioso diceva giungere in linea retta fino ad Alfred Rosenberg.

Mito-XX-secolo1Effettivamente, la mistica tedesca pre-protestante è stata sovente considerata più come una manifestazione di latente paganesimo naturalistico, che non come filiazione dalla tradizione giudeo-cristiana. Basta ricordare che Massimo Vannini – che è tra i più noti studiosi di questa materia – ha visto in Meister Eckhart proprio lo svolgersi di un abbinamento sacralizzato tra corpo e anima, secondo vie opposte a quella cristiana, tanto da esprimersi in proposito in modo estremamente eloquente: «Anche Eckhart ha chiaro che la pienezza della vita è nella natura – non in uno spirito esangue o lontano dall’umano – ma, al contrario, nell’umano, propriamente in esso». Ciò conduce alla conseguenza inevitabile che la corporeità umana, lungi dall’essere avvilita dal disprezzo antivitale di cui pùllula la patristica cristiana, si dilata verso aperture di sacralizzazione trascendente della carne, sino a concepire il corpo dell’uomo come santuario divino. Lo stesso Vannini non ha esitato, addirittura, a scrivere che il domenicano turingio espri­meva «fedeltà a ciò che è profondo, originario, vitale (staremmo quasi per dire biologico)».

Abbiamo dunque, da parte di alcuni tra i massimi esperti italiani di teologia, l’attestato che uno dei vertici del misticismo europeo, rappresentato dal corpus di prediche e sermoni eckhartiani, considerava l’Abgrund, il fondo dell’anima, quell’abisso interiore in cui giungono a maturazio­ne simultanea le sfere spirituale, psichica e biologica. Nessuna contrapposizione, dunque, tra corpo e anima. Nessuna antitesi fra i tratti di un volto e il suo inconscio sigillo. Ma, al contrario, una lucente e scambievole interdipendenza.

Da questi cenni, ben si comprende come un moderno sistema di pensiero incardinato sulla rivendicazione degli intimi rapporti tra psiche e fisiognomica, tra spirito e bios, quale fu quello di Rosenberg, e che tornava a stabilire la nobiltà profonda del corpo come riflesso dell’anima, presentasse tutti i titoli per considerare la mistica di Meister Eckhart quale essenziale momento di identificazione per l’uomo nordico-ario, secondo quell’imperativo di diventare ciò che si è, che già fu inscritto tanto nel frontone del tempio di Delfi, quanto nelle pagine di Nietzsche.

Alfred Rosenberg, che nel Novecento è stato uno dei maggiori riscopritori del misticismo di Meister Eckhart, nel collocarne il pensiero alla base del moto di riconquista religiosa, culturale e politica dell’identità popolare in epoca moderna, non fece dunque alcuna operazione di tra­visamento ideologico: la potenza più elevata dell’anima, la obereste Vernunft, trova pertanto la sua sede nella profondità della natura. Tanto che il motivo eckhartiano della Gelassenheit, del distacco – presente in modo non dissimile anche nella riflessione di Heidegger – prevede un ab­bandonarsi alle energie arcane della sacra corporeità, da quelle psichiche fino a quelle istintuali e propriamente sensitive: illuminata capacità intuitiva di vedere il sogno che si anima.

Una dottrina religiosa che fa dell’uomo un essere semidivino, in virtù della sua possibilità di avvertire in sé la “scintilla sacra”, quella Fünklein che approssima l’uomo al Dio, è una dottrina del potenziamento dell’Io e dell’elevazione umana a dimensioni sovrumane, e non una dottrina materialista. Ciò che la cultura nazionalsocialista si sforzò di elaborare, dando vita ad una rami­ficata metafisica dell’identità bio-religiosa, si colloca in questi spazi di riappropriazione delle antiche certezze circa un legame indissolubile tra corpo e anima.

Negli anni del Terzo Reich, svariati autori tedeschi si occuparono della relazione trascendente tra la sfera della corporeità e quella della spiritualità, pervenendo ad una ripresa della tradiziona­le convinzione – presente dall’Antichità sino agli esponenti del Romanticismo ottocentesco ed oltre – che il corpo umano, per nulla riducibile alla sola struttura materiale, rimanda a significati di sacralità per così dire “olistica”, interessanti cioè la natura umana nella sua interezza. Dal filosofo Walther Schulze-Soelde, che scrisse intorno alla «lotta per il Dio tedesco», a Wilhelm Hauer, il teologo della Deutsche Glaubensbewegung, il Movimento per la Fede Tedesca cui Rosenberg fu vicino, fino a Hermann Schwarz e ad Ernst Bergmann, tutti pensatori impegnati a ridisegnare il profilo della religiosità germanica sotto i segni della veneranda Heidentum: in questi casi si ebbe la comune volontà di recuperare i fondamenti mistici atti a liberare l’uomo europeo dalla superstizione universalista, lungo il solco tracciato da Meister Eckhart. In questo senso, si inserisce anche l’interpretazione, ricorrente nella pubblicistica ed anche nel program­ma politico nazionalsocialisti, di valutare la figura del Cristo nel quadro dell’ario-cristianesimo oppure del cristianesimo positivo, astraendo però dalla dogmatica teologale.

Alfred Rosenberg condusse al più alto grado questi nessi allorché, nel 1930, pubblicò Il Mito del XX secolo, che già da anni aveva in gestazione. In questo libro, che a sua volta si inserisce in una tradizione operante nei decenni precedenti (ad esempio con Langbehn e Lagarde e il loro teorema di una fede tedesca, con la visione del Volk come “regno di Dio”), il filosofo baltico collocò infatti Meister Eckhart al centro di una lotta per i valori che doveva essere innanzi tutto d’ordine culturale, metafisico, religioso, e poi anche politico. E non per caso, alla concezione mistica della vita egli dedicò un intero capitolo del Mito, intitolato appunto Mistica e azione.

Il fatto che egli vi comprendesse una vera e propria spiritualizzazione della materia corporea è a nostro giudizio essenziale, poiché molto spesso la filosofia razzialista di Rosenberg ha dovuto incassare la taccia di “materialismo” e “biologismo”, venendo contrapposta ad un cosiddetto “razzismo dello spirito”, di cui sarebbero stati esponenti in Germania un Ludwig Clauss e, in Italia, uno Julius Evola. Furono lo stesso Evola e, dopo di lui, lo storico De Felice, a svolgere questa malposta divaricazione, che ancora oggi gode di una insistita fortuna presso numerosi storici. Ma che, obiettivamente, non trova riscontro in Rosenberg. Il quale – come del resto altri teorici della razza tedeschi, ad esempio il Günther – pose sempre l’accento sui valori dello spirito e dell’anima, di cui la razza non sarebbe stata che l’esteriore, visibile, e altrettanto sacro risvolto.

Diversamente, Rosenberg non avrebbe parlato di mistica, né avrebbe sottotitolato il suo Mito con la frase Una valutazione sulle forme della lotta spirituale e anìmica del nostro tempo. Aprendo il libro di Rosenberg, noi ci imbattiamo in frequenti celebrazioni della corporeità come rimando simbolico, come geroglifico esteriore di una più interna identità, che è di carattere essenzialmente spirituale. La fisionomia come rispecchiamento dell’anima: ma non fu proprio questo un convincimento dell’Ellade dorica? Ad esempio, laddove Rosenberg afferma che «raz­za è equivalente di anima», che «la storia della razza è perciò insieme storia naturale e mistica dello spirito», oppure laddove si richiama alla «nostra concezione del mondo spiritualistico-raz­ziale», evidentemente egli non formula alcuna dottrina del determinismo biologico, procedendo casomai ad una santificazione della carne e ad una mistica del sangue in chiave di sublimazione metafisica.

In un modo che – occorre ricordare – si trova presente non solo in Meister Eckhart, ma in molti altri esponenti della mistica cristiana medievale, ivi compresi personaggi cui non si ne­gherà elevatissimo spessore religioso, come ad esempio la santa Caterina Benincasa da Siena, autrice di una vera e propria ascesi visionaria, legata all’estasi fisica del sangue. Il collegamento operato da Rosenberg, circa i valori comunitari della stirpe e quelli della spiritualità, appare con chiarezza da quanto si trova scritto nel seguente passo del Mito:

La vita di una razza, di un popolo, non è una filosofia che si sviluppi logicamente, e nemmeno un processo che si svolga secondo la legge di natura, bensì la formazione di una sintesi mistica, di un’attività spi­rituale, che non può essere spiegata attraverso ragionamenti, né può essere resa comprensibile da una rappresentazione di causa ed effetto.

Addirittura, dunque, qui si esplicita il superamento del dato naturalistico, assegnando alla fase dell’appropriazione mistica dell’identità la medesima valenza di un fato enigmatico, nel senso di una fede nel mistero del sangue. Nulla di perversamente biologistico, pertanto, se si attribu­isce qualità ulteriore al corpo umano. Del resto, la ruvida accusa di aver fatto del volgare ma­terialismo, che incongruamente è rivolta al pensiero di Rosenberg, potrebbe essere diretta allo stesso modo anche a recenti intellettuali che sostanzialmente non compiono nulla di diverso, come ad esempio Fabrice Hadjadj, professore di filosofia a Tolone, autore nel 2008 di un libro dall’eloquente titolo Mistica della carne, in cui da un’ottica cristiana si opera per una «valoriz­zazione del corpo e della carne», che è davvero paradossale in quel contesto…

E tuttavia la corporeità, in Rosenberg, non è soltanto retaggio genealogico di sangue, ma anche garanzia certa di futuro. Quello del destino, impersonale e comunitario, che avvolge la vita dell’uomo fino a farne un segnacolo delle potenze cosmiche, è uno dei termini più qualificanti della teologia politica nazionalsocialista: variamente definita anche religione della vita, oppure neopaganesimo razzista oppure, ancora, mistica del sangue.

Di tale saliente ideologico Rosenberg è l’esponente di punta, e viene ricordato come colui che tentò una sintesi del paganesimo antico con la moderna volontà di superamento del cristia­nesimo e di ogni dogma universalistico. Fu il tentativo di elaborare una religiosità politica nel senso con cui le civiltà ellenica o romana la intendevano, non disgiungendo cioè la sfera del sacro dalla vita comunitaria, ma anzi inglobandole in un’unica interpretazione dell’esistente. Nel Mito del XX secolo, Rosenberg ha scritto che il culto degli eroi avrebbe partecipato di questa solennizzazione. I due milioni di soldati tedeschi caduti nel corso della prima guerra mondiale, cui il Mito è dedicato, sarebbero stati una sorta di paradiso dei santi della nuova fede e i siti del loro riposo avrebbero dovuto assurgere a sacrario nazionale, aprendosi così alla nuova reli­giosità: «Gli uomini dell’età ventura trasformeranno i monumenti ai caduti di guerra e i parchi della rimembranza in luoghi di pellegrinaggio di una nuova religione; là gli animi dei tedeschi saranno costantemente e interamente rimodellati nel perseguimento di un nuovo mito». Tra l’altro, secondo lo storico William Shirer, fu proprio Rosenberg ad infondere in Hitler l’idea di erigere un culto religioso degli eroi, già presente anche nella speculazione di Hegel, secondo un’interpretazione che faceva del caduto una sorta di eroe veggente, il precursore della futura gloria del popolo.

Il passato è infatti promessa di avvenire. In Rosenberg, come del resto in tutta la filosofia politica nazionalsocialista, è presente l’idea (comune anche al Fascismo italiano) che solo nel futuro si realizzerà la figura dell’uomo nuovo, che similmente a quello arcaico dovrà riuscire a trovare in sé e nella propria stirpe i fondamenti di un’esistenza rinnovata: «È questo il compito del nostro secolo: creare da un nuovo mito esistenziale un nuovo tipo umano». Del resto, il relativismo na­zionalsocialista, in base al quale ogni popolo intraprende nel mondo un viaggio secondo gli stili della propria cultura ereditata, si inseriva in un filone di pensiero che ebbe nel nome di Spengler il suo più tipico referente. E spengleriane sono alcune inquadrature di Rosenberg.

Si tratta di concepire i popoli come organismi viventi, come individualità comunitarie, ognuna con una sua fisionomia, con una sua storia, un suo destino: «Ogni razza ha la sua anima. Ogni anima ha la sua razza». Un combaciare di architettura interna ed esterna che è creazione del tipo irripetibile: ciò che rende ragione dell’inesauribile varietà che è in natura, della preziosa ricchezza che è nella diversità tra gli uomini e tra i popoli.

* * *

Col Mito del XX secolo Rosenberg ha creato un affresco culturale in grado di ripensare la storia e l’identità in un quadro di drammatica contrapposizione. Del resto, in conseguenza delle sue esperienze personali, egli trasse la convinzione che il Novecento sarebbe stato un secolo di fronteggiamenti apocalittici, un’era di lotta in cui si sarebbe giocata la sorte dell’uomo europeo per i secoli a venire.

L’aver visto coi suoi occhi all’opera il bolscevismo, nei giorni della sanguinosa rivoluzione sovietica, dal suo ravvicinato osservatorio di tedesco-baltico, ex-suddito della Russia zarista e giovane laureato, nel 1918, alla facoltà di Architettura di Mosca, lo indusse a concepire una dottrina di opposizione radicale, che trasferì nella concezione del mondo da lui delineata nel Mito e in altri suoi scritti, come ad esempio il pamphlet “impressionista” intitolato Peste in Rus­sia. Il bolscevismo, i suoi capi, la sua manovalanza, il suo olocausto, pubblicato a Monaco nel 1922, in cui Rosenberg esasperò all’estremo l’identificazione tra governo sovietico e dominio giudaico.

Si trattava della visione di un dramma dualistico, con connotati di vera e propria ascendenza iranica, che presentava le forze luminose del bene in antagonismo cosmico con quelle oscure del male. La sua esperienza del bolscevismo come rovesciamento sanguinario dell’ordine tra­dizionale, e la sua analisi di questo sommovimento come esito ferale di una congiura malvagia all’opera costantemente nella storia, furono centrali nel suo disegno storico, secondo il quale l’arianesimo si sarebbe trovato in ogni epoca a lottare contro energie razziali di opposto segno, identificate nel mondo semita e nella sua febbrile volontà di trascinare la civiltà nordica al finale annientamento.

Questa consapevolezza circa la capacità bolscevica di sovvertire dalle fondamenta l’ordine naturale delle cose, venne da Rosenberg rafforzata con dosi di storicismo, antropologia culturale e pangermanesimo razzialista, così da trovarsi sullo stesso terreno – una volta riparato a Monaco di Baviera, all’inizio del 1919 – di quanti in Germania si andavano raccogliendo per reagire al dilagare terroristico delle varie “repubbliche dei consigli”. Studiosi come Ernst Nolte, tra l’altro, hanno sottolineato con forza questo retroterra, dando conto della nascita del Nazionalsocialismo essenzialmente come di un movimento di violenta reazione identitaria al traumatico predominio insurrezionale del bolscevismo.

Sono state ormai ben studiate le fasi dell’inserimento di Rosenberg nel milieu nazionalpopolare attivo nella Germania del dopoguerra: la sua partecipazione alla Thulegesellschaft – la branca bavarese del Germanenorden -, l’incontro con Hitler tramite Dietrich Eckart, l’iscrizione alla NSDAP alla fine del 1919, l’assunzione della direzione del “Völkischer Beobachter” nel 1923, la sua sollecitazione per dar corso al putsch del 9 novembre, infine la reggenza del partito nel periodo della prigionia di Hitler quale organizzatore, insieme a Strasser, del ribattezzato Mo­vimento Nazionale e, nel 1928, la creazione del Kampfbund für deutsche Kultur, che dette a Rosenberg una sorta di primazia sulle questioni di natura culturale e ideologica all’interno della NSDAP. Queste tappe si succedevano in Rosenberg con timbro rivoluzionario, ciò che gli stu­diosi non di rado fanno risalire alla sua ascendenza tedesco-baltica.

Ad esempio, lo storico Michael Kellogg ha rimarcato la giovanile appartenenza di Rosenberg all’associazione nazionalpopolare estone Rubonia, che raccoglieva i Volksdeutsche baltici e dal­la quale prese vita l’Aufbau, un circolo ideologico formatosi a Monaco nei primi anni Venti tra gli emigrati “bianchi” scampati alla Russia sovietica. Tra i membri dell’Aufbau, non pochi en­trarono nella NSDAP e contribuirono a condizionarne taluni tratti ideologici, veicolando l’idea di un asse tra il Reich e una futura Russia nazionale, secondo principi che erano stati dell’orga­nizzazione nazionalpopolare delle Centurie Nere, attive nella Russia imperiale prima del 1917 e favorevoli all’intesa germanico-slava.

Tra i militanti tedeschi provenienti dalla Russia, oltre allo stesso Rosenberg, figuravano alcuni personaggi di primo piano del Nazionalsocialismo delle origini: Max Amann, ad un tempo se­gretario della NSDAP e di Aufbau; Max von Scheubner-Richter, colui che mise Ludendorff in contatto con Hitler nel 1921 e che sarà tra i caduti del 9 novembre; Otto von Kursell, sodale di Dietrich Eckart e disegnatore delle pubblicazioni nazionalsocialiste; Arno Schikedanz, già or­ganizzatore a Riga delle Stoßtruppen anticomuniste e futuro alto funzionario del Ministero per i Territori Orientali Occupati, diretto dal 1941 da Rosenberg. Tutti costoro erano stati membri di Rubonia e introdussero all’interno della NSDAP la concezione di una solidarietà politica e raz­ziale tra Tedeschi e Russi, che per un periodo ebbe una sua influenza sullo stesso Hitler. Il quale, ad esempio in un discorso del 12 agosto 1921, associò le due nazionalità nel medesimo contesto della comunità dei popoli ariani. Queste impostazioni, come è noto, rimasero vive in Rosenberg anche durante la seconda guerra mondiale, quando vennero superate dalla concezione hitleriana di una necessaria guerra senza quartiere ad Est, non mancando, tuttavia, di avere una loro parte nella decisione tedesca di allestire, sia pure tardivamente, un’armata russa di liberazione a fian­co della Wehrmacht.

Il terrore scatenato dal bolscevismo nell’Europa centro-orientale nel periodo dell’immediato dopoguerra contribuì in modo decisivo ad alzare il tasso di radicalismo ideologico nella NSDAP dei primordi, ma non fu tale, in ogni caso, da spegnere il filone per così dire “slavofilo” di Ro­senberg, presente nella sua concezione ideologica, politica e geo-politica. In essa, inoltre, non mancò l’idea del socialismo quale onore di rango interno alla Volksgemeinschaft, volto alla denuncia del prepotere bancario gestito dai monopoli internazionali, come rimarcato anche da Robert Cecil nella sua biografia di Rosenberg del 1972.

La situazione storica degli anni Venti-Trenta del Novecento, caratterizzata da un così elevato livello di conflittualità ideologica, produsse nei movimenti nazionalpopolari europei la neces­sità di dotarsi di risposte adeguate, fino a giungere all’elaborazione di una vera metafisica della rivoluzione. In questo contesto, il mito agitato da Rosenberg divenne il paradigma simbolico di un insieme di valori potenziati da una marcata aura di sacralizzazione. Il politologo Manuel Garcìa Pelayo, nel suo libro Miti e simboli politici risalente al 1964, scrisse che Rosenberg fu l’elaboratore rivoluzionario di una mistica delle origini, in cui il sangue veniva descritto come sostanza racchiudente poteri quasi magici, comunque misterici, quindi niente affatto riducibili al mero dato biologico. A smentita, una volta di più, dei superficiali detrattori, ricordiamo che Pelayo descrisse la volkische Religion tratteggiata da Rosenberg come un’epifania di potenze sacrali: «Ora il sangue, secondo la dottrina nazista, non è un fatto puramente fisiologico, ma qualcosa di misterioso che reca in seno proprietà morali, intellettuali, etc.; in una parola, il san­gue è anche un fatto di natura spirituale che si dispiega in creazioni culturali, come la filosofia, l’arte, la scienza, le forme sociali, etc.».

Questa frase, che basterebbe da sola a liquidare tutte le annose mistificazioni che vengono fat­te intorno al pensiero di Rosenberg, dà conto di quell’occulta, viscerale presenza che regola i destini della Volksgemeinschaft, e che può essere racchiusa nel concetto di mistero del sangue. Ma diamo ancora la parola a Pelayo, che sintetizzò, come meglio non si sarebbe potuto, il ri­sveglio delle energie mitiche della stirpe, quale fu pensato da Rosenberg in funzione della lotta imminente:

L’unica cosa che lo interessa è scoprire il mito – cioè questo centro da cui si irradiano il carattere, lo spirito e i simboli di un uomo o di una comunità – che possa salvare la Germania dalla sua prostrazione e il mondo dal suo caos, un mito che permetta la resurrezione del sangue sparso dai morti tedeschi nella guerra. Tale mito è il mito del sangue e della razza, giacché l’essenza dell’attuale rivoluzione mondiale è ra­dicata nel risveglio dei tipi razziali e, di conseguenza, bisogna opporre agli altri il proprio tipo, bisogna opporre al tipo ignobile il tipo nobile; occorre infine risvegliare qualcosa che costituisca l’espressione della chiamata divina del nostro tempo.

Nel Mito del XX secolo, Rosenberg scrive: «Ora nasce una nuova fede: il mito del sangue, della fede che con la difesa del sangue si difende al tempo stesso il divino che c’è nell’uomo; fede che incarna la chiara coscienza che il sangue nordico rappresenta il mistero che ha sostituito e superato i vecchi sacramenti».

Di tale natura era dunque l’escatologia messianica profetizzata da Rosenberg, che sul riflesso della mistica eroica di Meister Eckhart formulò la religione di un nuovo paganesimo rivoluzio­nario, in grado di erigere il Millennio.

* * *

All’apice della Weltanschauung di Rosenberg non troviamo infatti una semplice e ristretta rivendicazione dei caratteri nazionali, ma un’ideologia del nordicismo indoeuropeo concepito come leva di rivolta mondiale, comprensiva non del solo germanesimo, ma di tutte le esperienze storiche e culturali della civiltà aria di cui è traccia ai quattro punti cardinali del pianeta, in uno sguardo panoramico su vicende epocali, di cui il Mito del XX secolo costituisce la più intensa espressione.

Non fu estraneo a tale sguardo l’insieme dei miti tradizionali, di cui la cultura indoeuropea protostorica fu artefice. Il mito di Atlantide, ad esempio.

Rosenberg ripercorre l’evento – da lui definito «probabile» – di un primordiale irraggiarsi delle genti iperboree da un centro artico-atlantidèo verso le sedi in cui storicamente sbocciarono le culture greca, romana, iranica, indo-vedica, seguendo gli spostamenti di quelle arcaiche schiere guerriere nordiche, che sono stati rintracciati – anche recentemente – in tutto l’orbe terracqueo, fino all’Asia gialla e all’Oceania. Nel Mito, l’origine indoeuropea dei culti del fuoco o delle divinità della luce, presenti da Roma all’India, viene ricondotta all’unità originaria di quelle stirpi, che avrebbero dato vita a una concezione non solo spirituale, ma anche cosmica, naturale, esistenziale. La presenza aria, ad esempio tra gli Amoriti palestinesi oppure tra le prime dinastie egizie, viene da Rosenberg ugualmente spiegata come un’unica filiazione genealogica. Si è det­to che questa interpretazione storica la si ritrova anche nella teosofia o in svariate ricostruzioni völkisch tardo-ottocentesche. Ma noi intendiamo piuttosto far presente che la teoria dell’irrag­giamento indoeuropeo, all’epoca associata al pangermanesimo politico, è stata oggi del pari sottoscritta nelle sue linee generali, e con esclusivi intendimenti scientifici, da parte di numerosi studiosi di prima grandezza, dal Dumézil al Renfrew, dalla Gimbutas al Bucci.

Ciò che si trova scritto nel Mito di Rosenberg non si discosta dunque molto da quanto l’alta cultura paletnologica, linguistica ed antropologica va da decenni ratificando in un grande nume­ro di studi. E che anche geniali, recentissime interpretazioni, del tipo di quella di Felice Vinci su Omero nel Baltico, che sulle orme del Tilak ripropone una puntigliosa e documentata storiogra­fia del migrazionismo indoeuropeo a partire dalla Urheimat artica, confermano in pieno, trovan­do ulteriore conforto in accademie scientifiche ufficiali di diverse nazioni. Anche se – bisogna pur dirlo – le inquietanti implicazioni ideologiche ne precludono ancora una più ampia e libera divulgazione, attraverso la conformistica reticenza della maggioranza degli studiosi.

La concezione rosenberghiana della via mistica al dominio politico è una rilettura a tutto cam­po di intere porzioni dello scibile, che ingloba un vasto ventaglio di aspetti culturali, di situazio­ni storiche, di entità etniche. Nel Mito troviamo la lotta al prepotere oscurantista della Chiesa, ma anche la difesa, sulla scorta di Houston S. Chamberlain, della figura del Cristo trionfante, eroe nordico scaturito dalla terra indoeuropea della Galilea, nettamente contrapposto a quella del Cristo derelitto e gemente che altro non sarebbe, secondo Rosenberg, che una sovrastruttura ebraica travasatasi per mano di Paolo di Tarso negli Evangeli. Nel Mito troviamo la contrapposi­zione fra l’amore cristiano, poggiante su una disumana enfasi dell’afflizione, e il senso nordico dell’onore, generatore di audacia, di fervore ideale, di superiore giustizia, di cui Rosenberg osserva traccia anche negli evangelisti Matteo (10, 28) e Luca (17, 21): laddove si parla della nobiltà del sangue e del regno celeste vivente in interiore homine. Nel Mito troviamo, ancora, la convinzione che la travagliata storia delle eresie, dall’antico marcionismo manicheo al catarismo e fino al luteranesimo, sarebbe stata un’unica lotta della libertà nordico-germanica per sfuggire alla presa dogmatica dell’intolleranza “siriaca”. Vi troviamo, infine, l’idea che il Novecento non è che il finale campo di battaglia fra ordinamenti che si disputano l’anima europea, di cui solo uno, secondo Rosenberg, trattiene valore positivo, gli altri essendo invece il nerbo di una con­giura contro l’uomo ario: l’Occidente nordico ancora vitale, «poggiante sulla libertà dell’anima e sull’idea di onore»; il «dogma romano», che ìstiga all’amore servile e remissivo; e infine lo «sfrenato individualismo materialistico ai fini di un dominio mondiale politico-economico del denaro». Entro queste forze contrapposte si svolgerà la lotta finale per i valori.

Come si vede, si tratta propriamente di un’impostazione che non è sbagliato definire di tipo neo-gnostico, come è stato fatto, tra gli altri, da Hans Jonas, Eric Voegelin e Luciano Pellicani, che ha parlato piuttosto di «contro-Gnosi nazista». Il Nazionalsocialismo nel suo insieme, e il pensiero di Rosenberg in particolare, potrebbero ben dirsi la moderna versione dello gno­sticismo tardo-antico, in base al quale una fanatica certezza di intima fede sapienziale muove l’uomo all’azione. E, allo stesso modo, tale filosofia riverbera molto dell’antico millenarismo manicheo e dell’ancora più arcaica apocalittica iranica, secondo cui la storia non è soltanto una vicenda terrena di uomini, ma soprattutto una guerra nichilista fra mondi, in cui forze cosmiche agiscono entro dimensioni macro-temporali.

Lo storico Ernst Piper, autore di una corposa biografia su Rosenberg quale Chefideologe di Hitler, pubblicata a Monaco di Baviera nel 2005, ha attirato l’attenzione sulla concezione sto­rico-mondiale del pensatore di Reval, indicando nella sua tipizzazione del mito dello spirito nordico di razza l’asse attorno al quale ruota una serie dialettica di antitesi, al cui centro figura «l’uomo di luce ario-eroico in lotta con l’ebraico dèmone dei signori della tenebra». È da questa battaglia, ad un tempo terrena e metafisica, che sarebbe scaturita la rinascita dell’anima nordica, attraverso un lavacro mistico di fede, sacrificio e morte redentrice.

Per converso, notiamo di passata che questa drammatizzazione della polarità positivo/nega­tivo, così accentuata in Rosenberg, gli precluse la comprensione di altre impostazioni culturali pure presenti nel Nazionalsocialismo. Ad esempio, quel tellurismo cosmico fondato sui magne­tismi dell’Anima istintuale, di cui fu teorizzatore il nietzscheano Ludwig Klages, e che ebbe ricadute in ambienti politici e ideologici del Terzo Reich, quali il Blut-und-Boden, orientati verso una rivalutazione del ruolo del “femminile” nella simbolica nordico-aria. Detto in estre­ma sintesi, Rosenberg fu ostile a tutto quanto sapeva di “dionisismo”, di “psico-cosmogonia”, di “tellurismo”, preferendogli un sistema stilizzato unicamente sul tipo solare, olimpico, ura­nico. Ciò che dipese in grande misura, appunto, dal suo reciso dualismo, che attribuiva valore senz’altro demoniaco proprio a quelle energie lunari, telluriche e psichiche che invece, in altri contesti nazionalsocialisti, venivano riferite alle fondamentali ragioni della terra e del retaggio di sangue. A questa impostazione si deve far risalire la scarsa presenza della figura di Nietzsche nelle pagine del Mito del XX secolo.Mito-II2

Non è possibile seguire oltre, in questa sede, il complesso dei riferimenti e degli spunti presenti nel Mito del XX secolo, per i quali si rimanda all’attenta lettura del testo.

Oggi, per iniziativa delle Edizioni Thule Italia, viene riproposto al lettore italiano il classico, “impubblicabile” libro di Rosenberg, sia pure limitatamente alla prima parte, dedicata alla Lotta per i valori, che è per certi versi la più importante, in quanto relativa alla Weltanschauung, in cui convergono mito, mistica, storia, filosofia, religione, ideologia. Mentre la seconda riguar­dava l’Essenza dell’arte germanica e la terza e ultima, più politica, Il Reich venturo. Dalla nuova edizione si ricava che l’insieme di questa cultura mitica fondata sui simboli mobilitanti dell’identità, sebbene sottoposto a trattamento demonizzante in sede di divulgazione di massa, proprio nella nostra epoca conserva una sua leggibilità sul terreno dei saperi alternativi e su quello dell’interpretazione rivoluzionaria della tradizione europea.

Luca Leonello Rimbotti