Ass Thule Italia

 

Ritratto d'Europa Viaggio alle origini di un’idea

Alla fine di quella che fu chiamata la “grande guerra”, Paul Valery s’interrogava, pieno d’angoscia “Diverrà, l’Europa, ciò che essa è nella realtà, una piccola appendice del continente euro-asiatico? O riuscirà a rimanere ciò che pare, ossia la parte preziosa dell’Universo, la perla della sfera, il cervello di un vasto corpo”. Par che dimenticasse, il brillante scrittore francese, la parte che egli stesso aveva avuto nella preparazione della catastrofe, dico quel saggio, “La Conqueta Allemande, che aveva scritto nel 1896, ai suoi esordi, per la londinese “New Review”, la cui perfida dialettica fu impiegata a dimostrare che la virtù, l’intelligenza e la disciplina, unite insieme, avevano fatto dello Stato Maggiore prussiano il nemico del genero umano. L a constatazione di quel suo errore politico, tuttavia, nulla toglie alla genialità della distinzione: “ciò che l’Europa è, ciò che appare, ossia è divenuta”. Mi par necessario, prima ancora di fare il punto su ciò che l’Europa che oggi e d’invocare il suo nuovo divenire, l’avanzamento verso l’unità continentale e la promozione del suo parlamento e vere potestà legislative, affondare la meditazione e la ricerca sulle origini. Nessun organismo umano sfugge al destino segnato nelle sue stesse origini. Nelle origini è contenuta la riuscita secolare, tanto più sorprendente in quanto improbabile, avventurosa, solcata di cadute e sciagure, della sfida europea; L’avvenuto trionfo su un fato geopolitica apparentemente ineluttabile; la smentita offerta dallo spirito e dalla storia ai dati materialistici e naturalistici, in nome di una tensione continua di originalità e di volontà. Questo, tutto questo, fu compiuto dallo spirito europeo: non fanatico, ne fideista, anzi, semmai scettico, anche quando religioso; no ottimista, ma, semmai pessimista di un pessimismo lucido ed attivo, mai rassegnato. Il ratto d'Europa Mito e continente Un’occhiata all’opinioni e visioni di molti secoli può condurre a molte sorprese Mito e continente, realtà ed avventura, tutto questo fu l’Europa, e tant’altro ancora. Non mancano tuttavia le obiezioni contrarie che, in quanto mito, fin dalle origini appare scuro e di significato incerto, anche se l’immagine della fanciulla rapita dal toro è familiare alle coscienze sveglie ed alle fantasie degli artisti. Come idea, si obietta, non esiste; vi furono ed, in parte sopravvivono, tante idee che a lei si riferiscono; ma tutte insieme non fanno un’idea sola. Che sia un continente, contestano i geografi, i quali sembrano piuttosto inclini a dar ragione al pessimismo di Valere che, contemplandola nel 1924, lacerata ed intende a ricucire le sue ferite, le affibbiò la famosa definizione di “petit promontoire du continent asiatique”. Piccolo promontorio, che le vicende del successivo ventennio avrebbero ancor rimpicciolito, spostandone le frontiere dai monti Urali, dei vecchi libri di testo, a fiumi di casa quali l’Elba ed il Danubio, fino a sfiorare Lubecca e Trieste. In quegli stampi sembrava essersi indurita, per l’eternità; ed invece il crogiolo, cinque anni fa, si è rimesso a bollire. Noi non possiamo ancora prevedere in quali stampi si rapprenderà la materia tuttora liquida e mobile. Nel suo tumultuoso divenire, l’Europa esiste con tessuto unitario, realtà economica, speranza politica. Ripercorrere la sua vicenda significa evocare, con rare eccezioni tutti i grandi nomi della storia umana gran parte delle idee, tutti i modi del vivere civile. Significa percorrere un cammino grandioso di creazione letteraria, abbracciare l’arte più compiuta e matura, tutta la musica degna del nome d’arte, tutta la scienza, tutti i principi del diritto e della legislazione. L’ora che batte, ogni giorno sulla terra, scorre secondo i ritmi che l’Europa ha regolato, se non scoperto, essa sola, e consegnato l’intero mondo. Le fogge del vestire e le forme di governo, i modi di salutare e, perfino, di uccidere, gli stessi mezzi d’educazione, di comunicazione, di distruzione che i popoli grandi e piccoli, sapienti e folli, onorevoli ed indigeni, maneggiano ed adoperano, sono le estreme fronde di un albero che ha le sue radici in terra europea. Se oggi appare stretta d’assedio, e l’uomo europeo ha dovuto conoscere umiliazione ed affronti, e l’Europa stessa risulta sovente la grande accusata del nostro tempo, essa deve piegare solo la sua generosità, la faustiana prodigalità con cui estese a tutto il mondo il possesso dei suoi tesori, e mise le cognizione elaborate, dai suoi sapienti, al servizio di tutti. Si arrivò al paradosso per cui i popoli e le razze che le si fecero nemici, contro di lei, brandirono, quali armi, le idee che essa aveva elaborato e che si è visto ritorcere in un assurdo gioco del destino. Si vide in Algeria ed il Viet – Nam, si tornerà a vedere, temo in quella tragedia europea, la terra africana, che si avvia a diventare il Sud – Africa. Un dono continuo C’è qualcosa di affascinante in questa cultura, che volle difendersi pagandone pene immense: donarsi anche a rischio di esaurirsi. Pochi sanno riconoscere quest’ordine di concetti nella dozzinale storiografia che imperversa Ma Renan, per fare un solo esempio, aveva misurato il pericolo, quando propugnava l’avvento di un’oligarchia europea di sapienti che monopolizzasse la potenza e la scienza. Le caste dei sapienti orientali l’avevano fatto. Gli alti principii della conoscenza restavano nascosti entro impenetrabili tradizioni ruetiche. Nessuno doveva impadronirsene, giovarsene, sfruttarli. Dall’Egitto alla muraglia cinese, le civiltà d’oriente rimasero mondi chiusi, consapevoli che le loro conoscenze, divulgate, avrebbero potuto servire a nemici che se ne appropriassero. L’Europa si aprì a tutti. Se questo suo continuo dono di se può indispettirci, se consideriamo quanto essa stessa abbia contribuito ad armare le menti e le mani dei suoi nemici, che da soli non l’avrebbero mai potuto, tuttavia conserva il suggello della grandezza. Vittima del suo liberalismo, della sua generosità, essa predicò le sue idee, diffuse le sue conoscenze, aprì le porte delle sue scuole, insegnò il diritto, esportò i parlamenti e le dottrine umane, chiamò razze infantile e decrepite colpite dalle più sudice piaghe, a beneficiare della sua medicina redentrice. Uno scrittore spagnolo, Die de Corral, ha analizzato questo processo inesausto di “secolarizzazione” e donazione, questa divisione dei suoi tesori col mondo intero, in un libro di 50 anni orsono: El rapto de Europa. Vi si racconta come avvenisse questa “estensione di una civiltà oggettiva, generalizzabile, generosa, umana”, che attraverso i secoli si venne “ampliando in proporzione geometrica, moltiplicando i vantaggi che conferiva agli altri popoli; dalla prosperità economica alla disciplina militare”. Cosicché gli altri popoli non si limitarono ad utilizzare le risorse tecniche e le cognizioni scientifiche, ma, si impadronirono della sua linfa, del vigore storico più fecondo dell’Occidente. Nella figurazione d’una carta geografica, questa piccola terra che ha mutato il mondo non può fare a meno di commuoverci. L’estensione appare minuta ed insignificante, eppure, chi contempla quelle linee variante colorate che raffigurano terre e mari, si accorgerà d’una caratteristica ch’esse rappresentano, e la distinguono dai continenti immensi e dalle lande sconfinate. E’ un’impressione che quel grande ingegno barocco che fu il secentista Daniello Bartoli avrebbe potuto sviluppare nella sua “Geografia trasportata al morale”, del 1664: un’impressione di delicatezza, finezza, raccoglimento. La carta geografica ci apparirà, allora, quasi un affresco, dove le immense distese dell’Asia semineranno un caotico capriccio di materia ammassata ed accumulata da un Dio stanco e frettoloso; l’Australia, una vasta chiazza non rifinita; l’Africa, enorme e tozza, malamente squadrata, suggerisce idee di ottusità impenetrabile, di forza inumana e maligna. Ma, appena salite con lo sguardo ed indagate gli spazi del Mediterraneo, e vi perderete nei golfi minutamente incisi, acquistate la nozione del raffinato e del grazioso applicata alla geografia. I contorni si fanno più fini, le terre delicate, le penisole sottili, luoghi esili bracci di parevi s’insinuano, le fasciano e le aggirano con delicatezza premurosa. Seguite il profilo dell’Iberia, il profondo seno di Riiscaglia, la Manica sottile, il lieve promontorio di Danimarca, la gola dello Skagerrac, dove si apre quel Mediterraneo nordico che è il Baltico. Contemplare i piccoli territori dalle molte lingue, dove Nazioni appena raccolte idearono gli imperi, considerate la varietà di questa terra antica e ne ricaverete una sintesi di lavoro fine, profondo, paziente; quasi l’artefice occulto considerasse sufficiente impresa sbozzare appena le altre parti del mondo, per indugiare intorno alle linee d’Europa, come l’artista indugia intorno al volto, alla mano, e quelle parti della figura umana che sono le più piccole, delicate e mobili; quelle che esprimono la luce dell’intelligenza, il vigore del carattere. In tali caratteri geografici stanno, se li trasportiamo al “morale” alla maniera del Bartoli, i fondamenti fisici della vita europea: il clima privilegiato e temperato, immune dagli eccessi del calore e del freddo che ritardarono e resero ottuse razze vissute in altri climi; della varietà d’Europa; del suo essere, insieme, terrestre e marina. In quei caratteri stanno ancora i motivi della forza di Europa e della sua debolezza; la sua concentrazione, il suo riunire in breve spazio enormi forze vitali; il docile offrirsi della sua terra, elaborata e riplasmata della mano dell’uomo; le sue strade intersecate, numerose e varie; ma, insieme, anche il suo divenir facile preda delle invasioni esterne, facile vittima delle gelosie e bramosie intime; la sua incapacità a diluire i suoi disastri nei vasti spazi. Terra e mare Ma ancora viene, da quei caratteri, la sua capacità a riprendersi dalle batoste inferte dalle sue stesse invidie o dello indecifrabile destino, l’attitudine sveglia e attiva delle sue genti, non inclini a fatalismi e rassegnazioni, mai prese da quel desolato torpore che approfondì altre razze in sonni profondi di interi secoli. E’ un tentativo d’interpretazione, lo so, molto personale: dettato più d’affetto di ritrattista che dall’uggioso proponimento “scientifico”. Ma io vi scorgo la ragione profonda di questa vitalità europea che non cessa di stupirci e di consolarci. Mezzo secolo fa, ben più riunito che all’indomani di Verailles, pareva ammonirci, l’Europa, che non sarebbe risorta, mai più. Le sue terre immiserite, le sue fabbriche divelte e sfondate, le sue città arse e sbriciolate, il suo spirito fiaccato, sembravano non dover conoscere più stagioni fertili. Dalla nube di polvere e di fumo, dai vapori tossici di odio della seconda delle sue guerre civili nessuna idea si levava, nessuna verità consolante: man che mai lo strombazzato, propagandato campionario del rooseveltismo poteva risollevarci. Sola realtà, i due giganti di fuori Europa, i colossi previsti dai tanti ingegni alla Toqueville, che si prendevano, infine, la rivincita sopra l’antica dominatrice ridotta ai ruoli di potenziale, prossima preda, o di mendicante assistita. Odore di provincia Perfino uno scrittore che non aveva mai cessato di proclamarsi europeo, Thomas Mann, dubitò. Credette che un funzione autonoma dell’Europa fosse finita, ed in un’infelicissima pagina, scritta per essere letta, con odiosa pedagogia, dalle stazioni radiofoniche americane al popolo tedesco, proclamò che l’idea d’Europa “aveva conosciuto a prendere un odore nettamente provinciale”. Citava, il Mann, una frase del suo diletto Roosevelt in cui, con una dabbenaggine indegna dell’intelligenza che un tempo aveva mostrato, pareva creder ciecamente: “L’antica espressione civiltà occidentale non va più. Gli avvenimenti mondiali e le necessità comuni dell’umanità sono in procinto di unificare le culture dell’Asia, dell’Europa e delle due Americhe, e di formare, per la prima volta, una civiltà mondiale”. Le vacue profezie dell’improvvisato progressista giacciono, dopo mezzo secolo, in sparsi frantumi e rifiuti. Il senso profondo della rinascita europea sta nella smentita offerta ai profeti di sventura; pur senza un’idea, senza una bandiera, senza profeti. Per puro istinto. L’istinto che Nietzsche pone alle basi del destino. L’istinto che contiene e trascende la natura e la storia. L’Europa non ha espresso, in questi 50 anni, idee nuove, ne volontà di cercarne. La sua realizzazione unitaria è lontana. La maggior delusione che i suoi progettisti e fautori hanno provato è certamente nella constatazione che le scorciatoie economiche non sono bastate a darle la sospirata unità. Ché, anzi, sembrano, oggi, più adatte a dividere che ad unire. Qualcuno ammonì, ma non fu ascoltato: produrre e commerciare sono attività necessarie, ma non possono sostituirsi alle idee ed allo spirito. Le une e le altre sembrano ancor più latenti che presenti alla nostra generazione. Nostro compito è far sì che muove idee vive si affaccino non per cancellare le antiche, ma, per continuarle. Civiltà immortale Europa tra Oriente ed Occidente Nella storia delle dottrine politiche, l’idea d’Europa è concetto complesso e confuso. Ne sanno qualcosa quegli scrittori che, dedicandosi alle analisi delle origine europee, dalle concezioni dei singoli ai progetti di unificazione continentale, hanno dovuto sbrogliare intere matasse di concetti apparentemente analoghi, che generano invece confusioni vistose, quali Civiltà, Romanità, Cristianità, Sacro Romano Impero, Occidente. Tali concetti storici e morali possono tutti, a volta a volta, identificarsi con l’Europa; eppure, non sono mai identici a lei. L’Europa è, certamente, il terreno geografico e culturale in cui si espandono e prolificano, per lunghi secoli, resta una nozione, un nome senza identificarsi in un’idea. Un autorevole giornalista ha scritto, in tutta serietà, che Dante, niente meno, fu “il primo europeo”. Simili medaglie vengono appese, con la dilettantesca improvvisazione suggerita dalle urgenze centenarie e dal rumore pubblicitario, al collo, or dell’uno or dell’altro, degli spiriti europei. Commedia alla mano, Dante parla d’Europa quattro volte, in tutto il poema. Una volta facendo allusione al mito, le tre successive come territorio, il cui stremo, ossia ultimo confine, viene precisato con chiarezza geografia moderna, sul Bosforo (Paradiso, VI, 5). Quante volte la nominasse nelle altre opere, è un calcolo più difficile. Mai, in ogni caso, in qualche senso che sia comune per noi. Il Sacro Romana Impero, il miraggio di Dante, non è necessariamente europeo, pur comprendendo la maggior parte dei territori d’Europa. L’idea di Dante era inprescindibila dal contenuto teocratico e dall’aspirazione universale; estranei, entrambi, all’idea d’Europa, quale si viene configurando più tardi, e nel cui solco, noi, continuiamo a pensare. Dante non poteva parlare di Europa, ma pensarla, perché quell’idea non era ancora nata. Esisteva una nozione geografica; durante il Medio Evo si fece strada la persuasione di un certo destino comune dei popoli che la componevano. Non l’idea, però, bisogno tenere a mente questa distinzione, per non far dire agli antichi scrittori ciò, che non potevano pensare o scrivere. Contenuti spirituali Antichissimo il nome, la sua tradizione in idea a noi accessibile è molto più tarda, e può collocarsi al termine del Medio Evo, ed ancora oltre: quanto la civiltà occidentale viene scossa dalla triplice crisi delle scoperte geografiche, della Riforma protestante e della minaccia turca. L’indagine è stata condotta da molti scrittori. Alla storia dell’Idea dedicarono libri Chabod e Curcio, la cui opera resta la più chiara, equanime e felice; e quel singolare saggistiche fu Denis de Rougemont, cui il desiderio di mostrare quanto augusta ed antica sia l’idea d’Europa, giunse a formare la mano. Non penso di gareggiare con questi scrittori. Ne trarrò, invece, spunti e citazioni per chiarire quando l’idea continuò a formarsi come concetto a se stante, con propri contenuti spirituali: valori non ausiliari rispetto ad altri concetti, ma viventi di forza propria, dotati di propria suggestione e proprio fascino. Preme indagare quando l’Europa continuasse ad apparire, se non come auspicabile Patria comune, almeno come individualità storica, tessuto di interessi e lingue, aspirazione e speranze. Questo avviene quando l’idea comincia a liberarsi e distaccarsi da quelle di Romanità, Occidente, Cristianità, tutti concetti che, a volta a volta, fecero corpo con lei. Dire, come si sente, che l’idea d’Europa ha venti o trenta secoli, è insensato; significa ampliare, generalizzare, confondere. La nozione d’Europa, essa si, avrà quei tanti secoli, ma l’idea ne ha molti di meno. Per Erodoto, l’Europa si ricommetteva ad un concetto di bene e di fecondità, opposto a quello dell’Asia.Ma l’Europa degli antichi autori greci era poco più grande della Grecia stessa; non oltrepassava, in ogni caso, i confini dell’Ellade. A sua volta, l’Asia era un’altra regione, assai più piccola del continente che noi diciamo, ad oriente della Grecia. E tuttavia, negli scrittori greci, c’è un sentimento dell’Europa quale compendio di valori umani, opposti all’incultura ed alle barbarie degli asiani. L’esaltazione dell’individualità e dell’autonomia personale dell’uomo europeo contro la soggezione pretesa dai despoti, caratteristica degli asiani, è motivo importante. Dopo aver fatto la necessaria tara, che i demagoghi della mistica democratica amano dimenticare, sul significato e l’estensione della “libertà” presso le città greche, occorre anche aggiungere il rovescio importante: che più tardi, questo sentimento della libertà e dell’individualità apparirà, ad altri scrittori, un fattore di disgregazione e debolezza dell’Europa, rispetto alla compatta manovrabilità delle vaste e disciplinate masse degli asiani. Come si vede, il problema è complesso, perché sempre suscettibile di turbarsi per effetto di sfumature e venature impreviste ed incalcolate. Civiltà e barbarie Nell’imposizione, che diverrà permanente, di Oriente ed Occidente, ed assurgerà a contrasto tipico nell’andare del tempo, Eschilo adopera indifferentemente, nei Persiani, le parole Grecia ed Europa, per significare identico ambiente umano e culturale. In Ippocrate, medico e filosofo, risulta il motivo della varietà e diversità degli “europei”, opposto all’uniformità caratteristica degli asiani. In Socrate, l’opposizione si approfondisce, diventa insofferente e si carica di significati etici e politici: qui il bene la il male. Qui la civiltà, là la barbarie. Nasce, per la rima volta, il tema della “guerra santa” dell’Occidente contro il nemico che minaccia da Oriente. Roma approfondisce il tono allarmante del distacco e opposizione. La minaccia da Oriente viene subito chiara, appena la città, che si allarga ad impero, ed in tutte le direzioni, si espande, viene a contatto col nemico orientale. Anche ad Occidente sono conflitti con popoli e Nazioni, da sedare con la conquista. “Tu regere imperio populus, Romani nemento…”: ma non si identifica alcun nemico nella nozione d’Occidente. L’incubo della minaccia E’ il mistero dei Parti, l’incubo dei Persiani che ossessiona la politica estera romana; la persuasione che da Oriente possa risvegliarsi un’immane forza, capace di sovvertire gli ordinamenti dell’Impero, e dilagare nelle terre privilegiate, chiaramente suddivise, attentamente sfruttate, nei territori plasmati di una civiltà superiore, fu sempre viva e presente nelle coscienze romane. Da Grasso a Giuliano, l’ultimo dei grandi imperatori, entrambi caduti combattendo contro i Parti, il tributo di sangue alla Romanità, alla difesa contro l’Oriente, si tramanda nelle generazioni. Il sentimento della minaccia da Oriente era talmente vivo o diffuso, che la politica imperiale ne fece continuo e spericolato uso, come leva per scopi interni; non meno, mettiamo, di quanto, negli anni passati, gli Stati Uniti adoperassero lo spauracchio sovietico per tenere in linea gli alleati occidentali. Nel vasto saggio di Ronaldy Syme, “la rivoluzione romana”, dedicato alla carriera di Ottaviano ed alla transizione della Repubblica all’Impero, si racconta come la propaganda augustea riuscisse a dipingere quella che era, in realtà, solo una guerra civile tra romani per il potere, in una lotta tra Oriente ed Occidente (…) da un leto, l’erede di Cesare nel Senato ed il Popolo romano, sul cui capo risplendeva l’astro della casa Giulia, e, su nel cielo, gli Dei di Roma in lotta controre mostruose divinità del Nilo. Dall’altro le truppe multicolori di tutto l’Oriente, Egiziani, Arabi, Battriani, comandati da un rinnegato dall’esotico abbigliamento, “Variis Antonius Armis”; che poi, non era vero, perché anche le legioni di Antonio erano composte essenzialmente da romani e greci. Infine lo scandalo supremo, la straniera: “Sequiturque, Nefas, Aegyptia coniux”, cantò il maggior poeta della propaganda augustea e di tutta Roma, Virgilio. E quando la povera Cleopatria si uccise parve scongiurata la minaccia d’Oriente, e l’altro grande poeta chiosava, con un certo opportunismo, “Nunc est bibendum”, ora bisogna bere, di gioia – l’Europa aveva vinto l’Asia. Roma ebbe ben vivo, fin dalla fondazione dell’Impero, il senso dell’opposizione di Oriente ed Occidente. Ma l’Impero aspirava all’universalità, e presto si comprese che non poteva porsi limiti geografici. L’opposizione, lentamente, si mutò in conciliazione. Roma non fu mai razzista,, nell’uguaglianza della lingua e del diritto. L’opposizione originale cadde con l’allargamento della civiltà romana al bacino del Mediterraneo. Quell’unità mediterranea sopravvisse perfino alla decadenza dell’Impero ed alla sua suddivisione in due unità, nominate d’Oriente e d’Occidente. L’unità di costumi e credenze, una sostanziale identità imperniata nelle due grandi lingue, il latino ed il greco, la fitta trama commerciale, la fioritura del Cristianesimo, preservarono il mondo mediterraneo dallo sfascio e dalla frantumazione che si videro nell’Europa centrale. La fine dell’unità Sulle sponde del Mediterraneo, la civiltà erede di Roma continua una sua vita, che innumerevoli legami stringono in un insieme conscio di un patrimonio romano da difendere. Il termine orgoglioso in questo mondo si identifica, è Romania: la nuova Roma, che si contrappone ora alla Gothia, la terra dei nuovi barbari, la gente straniera ed incivile come preme ora lungo il Danubio per irrompere in Occidente. Neppure le tribù germaniche che calano in Spagna, invadono la Gallia, penetrano fino all’estremo Sud dell’Italia, si stanziano in Africa, riescono a scalfire questa tenace unità. I livelli della cultura e della legislazione si abbassano per l’immissione di nuovi e più rozzi costumi; ma Roma, secondata dal Cristianesimo, riesce a prevalere nell’inevitabile fusione che si opera in un vastissimo crogiuolo territoriale. I regni barbarici rispettano, sostanzialmente, l’unità dell’Impero. Sono incolti invasori, eppure inconsciamente si dispongono a diventare i formatori dei regni europei futuri. Il mondo politico sortito dalla fine dell’Impero romano è sconvolto dall’irresistibile irruzione islamica, che spazza via le tracce della civiltà greco-romana dalla sponda meridionale del Mediterraneo. L’unità è finita, vincoli di cultura e di religione, legami commerciali, sono dissolti, il Mediterraneo, da centro che era stato, diventa frontiera. La Spagna è invasa, il centro di gravità d’Europa si sposta a Nord. L’Impero d’Oriente cessa di esercitare una qualsiasi influenza sui regni senza più alcuna cautela, e si riduce in una lunga, estenuante, difensiva. Non l’idea d’Europa, ma un’organizzazione continentale della difesa europea comincia da qui. Amore e psiche Christianitas non è Europa Troppo si è detto e si ripete che l’idea d’Europa nasce con l’Impero di Carlo Magno. All’anno della sua incoronazione si continua a far riferimento; premi medaglie e diplomi si intitolano a Carlo, come ispiratore e patrono. Ma così non è. Con l’Impero carolingio nasce un organismo statale che, trasformandosi e poi distruggendosi, genererà l’idea di Europa. Ma per ora, tutt’altra è l’ispirazione. E’ vero che, pur inconsciamente, esso amalgama, unifica e fonde una realtà politica, una struttura umana, un patrimonio culturale che comincia ad essere Europa senza saperlo. Non bisogna attribuire soverchia importanza alla frequenza con cui la parola Europa ricorre nel Medio Evo: il senso è solo, esclusivamente geografico. Eppure, in quel vertice di valanghe distruttrici avventate contro l’Europa, Giorgio Falco rievoca, nel suo studio sul Medio Evo, “La Santa Romana Repubblica”, l’apparire di un aggettivo carico di significato e di suggestione: “Quando la marea araba, dopo avere inghiottito l’Africa Settentrionale e la Spagna dei Visigoti, aveva minacciato la Francia e l’intero Occidente, Carlo Martelli, a capo degli Europenses – la parola, piena di significato, è del cronista contemporaneo – aveva sventato il pericolo a Portiera, ricacciando gli infedeli al di là dei Pirenei e conquistando l’intera Aquitania”. L’anno 732, gli Europenses riportano la prima vittoria. Usato chissà come, chissà perché, da un oscuro cronista ispanico, quest’aggettivo, chissà come nato, sembra sorridere, oggi, come un incitamento fantastico. In realtà, si fondava il regno dei Franchi, tribù germanica passata in Gallia, il primo Stato europeo a prendere forma e struttura. Tra i Pirenei e le Alpi, il Mediterraneo e l’alto Danubio, la Manica e l’Atlantico, s’insediava un organismo compatto, che si dava una rapida esperienza diplomatica e militare, e preparava le basi per la trasformazione della monarchia franca in potenza continentale. Un organismo germanico In senso storico, il regno franco è la naturale conseguenza dello spostamento del centro di gravità dal Mediterraneo all’Europa settentrionale. La civiltà romana passa la mano, altri popoli e razze si adoperano, con commovente sollecitudine, ad assorbirne linfe, caratteri ed essenze. Il Pontefice romano resta il legittimo successore, nel rituale, nei gesti, nel seggio rimasto a Roma, dell’autorità pontificale, degli imperatori antichi. Se la potenza militare e l’ordinamento statale si sono trasferiti a Settentrione, l’essenza spirituale è rimasta a Roma. Là scenderanno gli imperatori di Francia e di Germania, a ricevere il suggello di legittimità, bontà e santità dei loro governi. Con Carlo Magno, l’Europa si differenzia, quale organismo politico, dell’Impero sopravissuto ad Oriente. E’ un organismo germanico calcato dentro uno stampo romano, da cui si irradia una poderosa rinascita culturale ed artistica. Romanica si chiama l’arte che prende vita dalla nuova concessione del mondo. Europa è sempre un nome geografico, ma si carica di significati più intensi: “Bex, pater Europae, è Carlo signore de “jure totius Europae, Europaes venerande apex, venerande pharus”, invocano poeti e cronisti, l’Imperatore. Al significato geografico si viene sovrapponendo quello antico greco e romano, della civiltà degli europei, mentre, oltre il Danubio e nell’Oriente, dimorano i popoli barbari e incivili: in più non sono cristiani. La nuova grande distinzione si aggiunge alle antiche. La civiltà degli europei è cristiana, permeata dalla verità del Vangelo. Comunità cristiana da un lato, orda anticristiana dallo altro. Si capisce che quando l’Impero di Carlo si sfascia, venga meno il significato politico e prevalga quello religioso. L’Europa, lentamente, si trasforma in “Res pubblica cristiana”, un insieme di popoli e regni che accettano, quale regola superiore, il cristianesimo. Alla concezione politica si sostituisce quella teologica. Più volte insorge l’Impero, e altrettante si modifica, incarnato in una moltitudine di dinasti, in decine di famiglie, provenienti dai quattro angoli dell’Europa feudale. Potentati europei se ne contendano l’investitura in lotte secolari, i cui nomi e le cui date sono nella memoria d’ognuno. Ma il centro, la continuità, la stabilità, si identificarono nella chiesa. Le guerre che gli Europei conducono verso Oriente, le Crociate, sono guerre mistico – religiose, cui sarebbe improprio attribuire ambizioni politiche, almeno primarie. L’unità che allora si forma non è europea, ma cristiana. Gente europee non sono ancora acquistate al cristianesimo, si proclama l’Impero d’Oriente, e cristiano, e soggette all’autorità spirituale di ROMA, rimangono numerose comunità del Mediterraneo orientale. Espressione geografica Uno storico inglese, Benye Ray, ha osservato che “ci sono voluti molti secoli perché il termine Cristianità si imponesse, applicato ad una ragione”, quelli che vanno dal nono al dodicesimo secolo. “Ma nel XII secolo, esso faceva parte del vocabolario abituale del mondo che parlava latino. Nel lungo periodo in cui si è formata la Cristianità, la parola Europa non gli fece concorrenza, perché era impiegata in senso esclusivamente geografico nelle opere scientifiche, e nelle esegesi dei passi della Bibbia n cui descrive la popolazione del mondo”. E’ impresa agevole contare nelle innumerevoli opere di cronisti, esegeti e commentatori, l’apparizione della parola Europa. Non esiste aggettivo che le corrisponda. E, invece, contare soltanto – come oggi si usa, quando si vuole esaminare la genesi di un concetto e la sua forza di penetrazione nel vocabolario usuale di un’epoca – il numero di volte che furono adoperate parole come “Cristianitas, Imperium cristianum, o Res pubblica cristiana, sarebbe impresa impossibile, perché sterminata”. Quando la parola tende a sostituirsi a tutte le altre usate prima, ed estendersi ai concetti di impero, di occidente: o romanità, si avverte un mutamento. Dante aveva usato rarissime volte la parola Europa. Adoperò gli aggettivi asiatico ed africano, e non sentì alcun bisogno di una corrispondente europeo. In Petrarca si fa più frequente. Boccaccio inveta europeico, una stranezza ma indicativa. Il mutamento è lentissimo, lungo tutto il secolo XIV e nel successivo. Valori nuovi Nel XV secolo appare l’aggettivo aeuropaeus, per la prima volta, per opera di un papa umanista e paganegiamte, Enea Silvio Piccolomini, divenuto Pio II. La parola Europa si fa più frequente, il suono si arricchisce di valori nuovi. – Che cosa è accaduto? E’ tramontato il sogno medievale di una chiesa universale. Cristianità significa, ora, l’accettazione di un principio religioso quale base di una identità culturale, nello stesso senso del Dar- al culturale, nello stesso senso di Dar – all’Islam della legge mussulmana: un territorio in cui vige un ordine ispirato a un principio religioso quale elemento unificatore. Nel XIV secolo l’unità cristiana è giunta alla rottura. La chiesa greca, scismatica dal 1054, e di nuovo, incorporata a forza dell’unità romana, torna a levarsi quale antagonista di Roma. Volenti o nolenti, i Papi di Avignone, si trovano nell’orbita della potenza francese. Italia e Germania ne provano amare gelosie, che non tardano a produrre conseguenze politiche. I regni europei si consolidano e lottano per sottoporre il potere della chiesa, così come avevano debellato la feudalità, i grandi ordini monastici si fanno partecipi del moto centrifugo, e ne approfittano. In tali condizioni, lo scisma del 1378 rappresentò il colpo decisivo. Sedici cardinali si riunirono a Roma. Di questi solo quattro erano italiani, ma la plebe romana, tumultando al grido “Romano lo volemo, o al manco italiano, spaventò il Conclave, che elesse Bartolomeo Frignano, arcivescovo di Bari, lo ultimo papa che non fosse cardinale, col nome di Urbano VI. Poco dopo, i cardinali francesi ed uno spagnolo, riuniti ad Anagni, proclamarono usurpatore Urbano e, dopo averlo scomunicato, elessero il cardinale Roberto di Ginevra, che prese il nome – poi revocato dagli storici - di Clemente VII. Non è qui il luogo di seguire la tumultuosa vicenda dello scisma occidentale, e l’intrigo di investiture ed ambizioni dinastiche ne sortì. I due papi in furiosa lotta ebbero successori anch’essi opposti, su i “due” troni di Pietro. Tutto ciò ci riguarda solo in quanto Repubblica Cristiana ne fu lacerata per sempre. Come idea di unità, era finita, sia in senso mistico che politico. La confusione dei credenti, l’indisciplina del clero, lo scadimento del papato, l’impiego della violenza e della corruzione delle due corti per prevalere l’una sull’altra, , il Concilio di Costanza, e l’elezione del cardinal Colonna, col nome di Martino V, furono le tappe della tremenda crisi. Una favola che incanta La chiesa ne uscì sconvolta, il clero corrotto, gli ordini ammolliti, la dottrina impoverita, minata da una terribile frenesia di dissolvimento, che preparava ben altre rovine, a breve scadenza. Chi ha vissuto il terribile pontificato di Paolo VI, le sue rinunce, le sue obiezioni, può capire le rovine che si produssero, e le altre che ne derivarono. Nulla poteva più conferire la Chiesa alla ricerca europea dell’unità. In più, nel corso dei due ultimi secoli, l cristianità aveva perduto tutte le sue propaggini d’oltremare. Acri caduta ne 1292, i principati del Mar Nero e Trebisonda dissolti, i territori bizantini dell’Anatolià invasi dai Turchi, la parola cristianità cessava di rappresentare l’aspirazione dell’universalismo cristiano. Al contrario, il cristianesimo nazionale progrediva in Lituania, l’ultimo avanzo pagano in Europa, e i Mori erano scacciati dalla Spagna. L’Europa venne a coincidere, quale continente, con la Cristianità di prima. La geografia aveva il sopravvento sulla religione. Non v’è più ragione di adoperare i vecchi concetti medioevali. Le due parole si equivalgono, ma il secondo concetto prevale. Gli scrittori dell’età nuova provano ripugnanza per i vocaboli del Medioevo, e, invece, Europa è parola classica, si adatta bene agli esametri dei poeti latini, possiede uno spazio nella mitologia, la sua favola incanta gli umanisti e gli artisti, per quel contrasto tra la languida vergine ed il toro, che la rapisce. Ecco il momento in cui la parola rinnovata dal gusto, diventa uno dei termini di riferimento della fantasia occidentale. No è ancora un’idea, ma è sul punto di diventarla. Europa generosa patria nostra Europa gloriosa Patria Il sentimento di un’Europa che sia Patria, tradizione comune, cultura raffinata e completa da definire, si precisa nel Quattrocento di fronte alla minaccia esterna: c’è un nemico deciso e tremendo, i Turchi. Una volta tramontata questa minaccia, una altra le si sostituirà, quella dei Russi. La lotta nazionale dei vecchi Stati europei, e le emergenze dei nuovi si svilupperanno soltanto negli intervalli tra queste minacce esterne. L’Europa sortita dai trattati di Mùnster e Osmabrùck, nel 1648, è un continente che crede di aver eliminato il pericolo esterno, e non ne ancora identificato un altro. Sempre atteso tuttavia, lo scontro frontale e definitivo tra l’Europa ed i Turchi non vi fu. Vi furono invasioni, guerre parziali, momenti di angoscia. I Turchi s’impadronirono dell’intera penisola balcanica, assediarono l’alta Buda, comparvero per due volte sotto le mura di Vienna, e furono respinti dal Re di Polonia, Sobieski, e da un grande generale italiano, Eugenio di Savoia, Capitano generale dello Impero. Ma si trattò sempre di guerre parziali. Lo scontro decisivo e finale non venne mai. La potenza turca decadde e si sgritolò per linee interne, come, un secolo e mezzo più tardi l’Impero sovietico. Hugh Trevor – Roper ha definito fronteggiarsi, armato di Europei e Turchi come un modello della coesistenza che ne avrebbe preso il posto nel nostro secolo. Già allora, in piena guerra fredda, egli avvertiva che non è necessario, ne storicamente stabilito, che i maggiori conflitti debbano sfociare in guerre totali; risultando, invece, i conflitti parziali quelli preferiti da entrambi i contendenti, che riluttano a mettere a repentaglio la loro stessa esistenza in un confronto armato che impegni tutte le forze, proprie ed avversarie. La diatriba che si trascinò per decenni, tra la strategia americana di dissuasione e quella europea che prese il nome dai mezzi proposti, delle rappresaglie immediate e massicce o graduate e selettive, era stata vissuta con alcuni secolo d’anticipo. La teoria per cui il mondo non può vivere metà schiavo e metà libero, che un urto frontale fra sistemi opposti è, presto o tardi inevitabile e può risolversi solo con una guerra ideologica totale, è semplicemente falsa. L’Europa e i Turchi, con le loro ideologie opposte ed i loro antitetici sistemi sociali, si fronteggeranno per secoli, in armi, sì ma anche con interesse, curiosità e reciproche fasi di simpatia. Ci furono, tra i due opposti sistemi, guerre locali anche sanguinose, intense relazioni diplomatiche, ambascerie e convegni di studi reciproci, quasi nel nostro senso attuale. Si scrissero libri tra i quali il commentario del fiorentino Cambini, “Della origine de Turchi, et Impero della Casa Ottomana (1540), è un libro capostipite. Un glorioso Passato Due opposte politiche estere In pieno Rinascimento, l’idea dell’Europa quale Patria comune, minacciata da un comune nemico, generò due correnti che si intrecciarono, si aggrovigliarono, si contraddissero e finirono con l’identificarsi in due opposte politiche estere occidentali, in perpetua lotta tra loro: tal quale si vide in Europa degli anni Cinquanta agli anni Ottanta, il conflitto tra gli anticomunisti intransigenti e possibilisti, che tanto ruolo ebbe nei casi interni delle più deboli europee. Estraendo l’essenziale delle correnti occidentali, scopriremo i soliti motivi dominanti, il tema dell’orgoglio e indomita speranza, e quello, opposto, del timore e dell’accomodamento. In definitiva, l’ottimismo ed il pessimismo. Ottimista è Enea Silvio, che polemizza vivacemente, in una lettera, col sultano Maometto II e gli espone i motivi per cui lo Occidente è migliore, più ricco, più vivo. Quale forza, in quella lontana lettera del 1460. Costantinopoli era caduta, i tardivi progetti di una nuova crocianabbandonati. Eppure, il gran letterato e papa scriveva, al suo diretto nemico: “Vedi quanta distanza tra la beatitudine e la nostra! La nostra corrispondente alla parte migliore dell’uomo, all’anima: la tua alla più vile, il corpo, la nostra è spirituale, la tua è casuale; la nostra, fulgente e nitida, la tua, oscura e fetida. La nostra è quella degli angeli e comune a Dio, la tua è comune ai suini, e ad altri greggi immondi”. Il raffinato umanista non misura le parole, va giù con un frasario di sfida epocale. Nel letterato ed uomo di chiesa, parla ora la voce d’Europa. L’Europa è colta; il nemico che le si oppone, barbaro, presuntuoso e superbo. Prima che politica, l’opposizione dei mondi è morale ed antropologica, come negli scrittori greci. Quest’uomo del rinascimento è il primo che intenda l’Europa in un senso in cui di riconosciamo. L’identificazione geografica è completa. Il senso politico e morale è aggiornato e moderno. L’uso della parola si andò allargando nei tempi successivi. Le scoperte geografiche d’America mostrarono che esisteva un altro Occidente che non era Europa. Dire Occidente conteneva un’ambiguità nuova. Non s’intendeva più il piccolo continente raccolto e civilizzato, la perla della sfera. Non più Cristianità, dunque, ne più Occidentale. Era l’Europa che veniva in primo piano: l’Europa protagonista necessaria del pensiero e delle aspirazioni del Continente, il migliore Occidente possibile. Ma un’Europa discorde. L’idea universale ed ecumenica tramontava, l’Impero era appannaggio della casa d’Austria, che perseguiva, ormai, scopi ereditari e dinastici. Altri regni europei, primo fra tutte la Francia, le contendevano primogenitura e primato. La lotta per il primato europeo, che doveva insanguinare il Continente fino alla carneficina del 1939 – 1945, cominciava allora. Il motivo della discordia d’Europa affiora potente, col suo rammarico e le rampogne, mentre il nemico minaccia: “Da te stessa a lacerarti il lato, seguì o misera Europa”;;;. All’Ariosto, al Tasso, si affianca un grande poeta portoghese, cui il respiro, allora mondiale, della sua Patria, istigava visioni totali, Canoes. Ed ecco, accanto al motivo dell’orgoglio, affiancarsi quello del timore, la “crisi” europea divisa di fronte al terribile nemico. Non è meno virile, questo motivo del timore, né meno appassionato dell’altro. Gli scrittori della “crisi” Si apre il grande motivo del pessimismo europeo: i fattori di sconforto vi prevalgono su quelli dell’orgoglio e della sicurezza. I progenitori degli scrittori sulla crisi dell’Europa che pullularono nella prima metà del nostro secolo, si ritrovano già in questi tempi lontani: non vanno confusi coi predicatori dell’abbraccio universale, coi profeti della “distensione”, del cedimento al nemico in nome di qualsiasi pace, anche con disonore. Sono, invece, nature forti e ardenti, la cui visione della disunione d’Europa, del suo dilaniarsi instancabile, della mancanza di una forte volontà di combattimento, genera luoghi e profondi turbamenti. Curcio, riconosce certamente in Coluccio Balutati il cominciatore della letteratura della “crisi dell’Occidente”, che si prolungherà fino ai Massis ed agli Spengler del nostro secolo. I Turchi sono forti e l’Occidente è corrotto. L’Occidente è disciplinato ed agguerrito, la Cristianità decadente. “Ma, in Coluccio, i grido d’allarme, aveva prevalentemente il significato di un incitamento alla riscossa”. Nessun fatalismo equivoco, nessuna rassegnazione, nessuna capitolazione morale. Bisognava agire alla crisi, ricostruire gli strumenti di una comune difesa di fronte al nemico. Per tutto il Cinquecento, queste idee furono accanitamente dibattute. Ed insieme crebbe la sterminata letteratura sui Turchi. Ricorda Trevor Roper che in Francia fu pubblicato, tra il 1480 ed il 1609, sui Turchi, un numero di libri doppio rispetto a quello dei libri dedicati all’America. In Italia spicca il “Commentario” del Cambini. Di fronte alla minaccia incombente sulle frontiere orientali, non tardano a scorgere, in Europa, abbozzi e progetti di unità. In senso cattolico, protestante, o puramente politico. Negli storici protestanti di Germania sorgeva la nuova idea di una Nazione tedesca che prendesse il posto dell’invecchiato e decadente Impero d’Austria. IL Peucer ravvisava, invece, la salvezza d’Europa in una unione di Germania, Italia e Francia. Con la continua esplorazione del continente americano, l’immagine del mondo si venne organizzando e precisando. Il contrasto abituale di Occidente ed Oriente si complicò. Cominciò addirittura a profilarsi, sulla fine del Cinquecento, quello che, nel nostro secolo, si è chiamato il mito d’America, terra vergine e felice, non contaminata dalle risse, dalle ambizioni, dalle antiche piaghe d’Europa. Così come, più tardi, apparvero le illusioni sul “buon selvaggio”, l’uomo nativo e fresco di reazioni d’intelletto, non corrotto dalla “Civilisatio”; e chi preferì cercarselo in Cina, chi nel Perù, chi nelle isole australi. Orgoglio e denigrazione si intrecciarono e contraddissero di continuo. Spiriti robusti, ingegni virili celebrarono le lodi di Europa; uomini di più fiacco carattere contrapposero, all’Europa, tutti i possibili selvaggi, tutti dichiarandoli migliori di lei. La razza abietta e svergognata degli intellettuali del secolo nostro ebbe illustri e lontani progenitori. Non esita condannare l’Europa il Montagne, perché gli indiani chiedevano, almeno, perdono a Dio, andavano in guerra, e gli europei no: la sete di dominio era, per costoro, sufficiente motivo per osare. L’Europa corrompeva e peggiorava i buoni selvaggi. Ora, dunque, al motivo Oriente-Occidente si aggiunge quello Europa –America. Nei dialoghi dei morti, il francese Fontanelle fa discutere, tra loro, Cortes e Montezuma; ciascuno enumera i vantaggi e le caratteristiche delle proprie terre e tradizioni. Prolifera sulle arti la iconologia dei Continenti, personificati con le attribuzioni classiche: il coccodrillo, all’America, giovane, affascinante e popputa, pin-up avant la lettre, attraente e selvaggia; l’elefante per l’Africa nera e tenebrosa, e i cammelli e gli schiavi e guerrieri tartari per l’Asia sterminata. Solo gli artisti non hanno dubbi. Essi seguono, nelle loro raffigurazioni, la fisionomia delineata da una turba di scrittori d’immagini, che ebbe in Cesare Ripa il suo definitivo codificatore. “Donna ricchissimamente vestita di abito regale di più colori, con una corona in testa, e che siede in mezzo di due cornucopia incrociati, l’uno pieno d’ogni sorta di frutta(..) e l’altro d’uve bianche e negre, con la destra mano tiene un bellissimo tempio, e col dito indice della sinistra mano, mostra i Regni, Borone diverse, Scettri, Ghirlande (:..) e più sorte d’armi, vi sarà ancora un libro, e accanto diversi strumenti musicali, una squadra, alcuni scalpelli ed una tavoletta che usano i pittori con diversi colori sopra e vi saranno anche dei pennelli. Europa è prima, e principale parte del mondo, come riferisce Plinio nel terzo libro, prese questo nome da Europa figlia di Agenore, Re dei Fenici, rapita e condotta nell’isola di Candia da Giove”. Immagine seducente “Si veste riccamente d’habito Regale, è di più colori, per la ricchezza ch’è in essa per essere – come dice Strabone nel secondo libro – di forma più varia delle altre parti del mondo. La corona che porta in testa è per mostrare che l’Europa è sempre stata superiore, è regina di tutto il mondo. Si dipinge che sieda in mezzo di due corni di dovitia, pieni d’ogni sorte di frutti, perciò che come dimostra Stradone è questa parte sopra tutte le altre feconda (..) Il cavallo, le prime sorti d’armi, li strumenti musicali, dimostrano che è sempre stata superiore a tutte le altre parti del mondo, nell’arme, nelle lettere, e in tutte l’arti liberali. Le squadre, i pennelli, i scalpelli significano have avuti havere uomini illustri, è d’ingegni prestantissimi, altri eccellentissimi nella pittura, scultura, architettura…” (da: Cesare Ripa, iconologia, a cura di Piero Buscaroli, Milano 1992) E’ l’immagine sovrana che, nell’immenso affresco della residenza di Wùrzburg, campeggia dipinta dal pennello di Giovan Battista Tiepolo. Ricca e serena regina, circondata dai simboli della scienza e dell’astronomia, della musica e della pittura, dell’architettura e d’ogni civiltà. E’ l’Europa di Vico, la creazione storica, meravigliosa e unica, che ha toccato tutti i vertici possibili della perfezione umana. Neppure la rivalità delle dinastie, le gelosie delle Repubbliche, le lotte per il dominio, le stragi, le desolazioni delle rovinose guerre e gli inganni di precarie paci riuscirono a cancellare questo quadro sublime e pieno di speranze. E’ l’Europa che ci seduce e ci chiama. Più che analizzarla razionalmente si voleva riproporvela con l’affetto dei figli e trasmettervi l’orgoglio di esserne figli. Piero Buscaroli Celebrazione delle Glorie passate

<< Indietro