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Re Artù

Re Artù Forse nessun personaggio, reale o di fantasia, può rivaleggiare in popolarità con il più famoso sovrano di tutti i tempi: Re Artù, protagonista, assieme ai suoi “Cavalieri della Tavola Rotonda”, di un corpus di narrazioni forse ancor più sterminato di quello biblico, leggende, racconti, romanzi, poemi, ecc.,ecc., non esiste “medium” o arte applicata a cui re Artù non sia approdato nel corso della sua lunghissima esistenza: dalla fine del XII secolo, la produzione di materiale arturiano continua con immutato successo. Per alcuni studiosi Artù è un personaggio ispirato a Cu Chulainn, protagonista di poemi epici irlandesi; per altri un dio del pantheon celtico, forse il simbolo della terra stessa (Art= roccia, da cui Earth), poi trasformato dalla leggenda in un essere umano. C’è invece chi ritiene che sia esistito veramente: nel VI secolo dopo Cristo, fu forse il re o il capo di una tribù britannica impegnata nella resistenza contro gli invasori Sassoni. Il nome, comunque, potrebbe derivare dal latino Artorius (in tal caso Artù era forse un Comes Britanniarum, ovvero un rappresentante dell’impero romano). Un principe britanno chiamato “Arturius figlio di Adeàn mac Gabrain Re di Dalriada” è citato dall’agiografo Adomnan da Iona nella V “Vita di San Colombano “ (VIII secolo). Ma seguire tutte le ipotesi storiche o folkloriche che riguardano Artù ci porterebbe lontano. Dal punto di vista esoterico ci preme sottolineare che egli, come del resto tutta la compagnia dei Cavalieri della Tavola Rotonda, rappresenta la ricerca umana della Luce, della purezza, della redenzione nella giustizia e nel coraggio in difesa dei più deboli. Artù diventa così il simbolo del sovrano perfetto: sovrano del Sè, sovrano della volontà sulla materialità della natura umana le cui caratteristiche involventi si possono tuttavia riscontrare nelle storie medioevali che sono giunte fino a noi riguardo al ciclo della Tavola Rotonda in cui Artù stesso ed i suoi Cavalieri non sono del tutto indenni, durante il cammino di ricerca, dagli errori della natura umana. Meta finale è il Graal, simbolo del termine di ogni fatica e di appagamento spirituale completo nella Divinità e nella Giustizia. Artù ed i Cavalieri della Tavola Rotonda possiamo essere tutti noi se cerchiamo come lui il riscatto dalle catene dell’ignorante egoismo che permea l’essere umano ed apriamo il nostro spirito alla Camelot interiore, ossia una dimensione di completamento e di pace in cui l’esercizio della conoscenza e della giustizia verso ogni essere vivente diventa la nostra nuova vita. La grande Madre La Grande Madre Se fosse necessario dare un’unica denominazione a Iside, a Ishtar, a Venere, a Athena, a Gea, a Modron, forse Grande Madre sarebbe la scelta più appropriata. Tutte queste divinità, anche se in modo diverso, rappresentano la Dea Terra, la gigantesca Madre di ogni essere vivente; sono il simbolo della natura nei suoi aspetti positivi - la fertilità, l’abbondanza dei raccolti - e negativi - le tempeste, la carestia - . Per questo suo dualismo molte antiche rappresentazioni della Dea Madre hanno il volto metà bianco e metà nero. Il volume “The Goddess Sites: Europe” (i luoghi della Dea: Europa) di Anneli S.Rufus e Kristian Lawson elenca un numero davvero impressionante di luoghi di culto della Grande Madre nel nostro continente; ora le rappresentazioni della Dea si trovano quasi tutte in superficie, ma gran parte di esse erano poste originariamente nel sottosuolo, dove la presenza delle correnti terrestri si fa maggiormente sentire. Proprio dalla Grande Madre derivano probabilmente le celebri “Vergini Nere”, le Madonne dal volto scuro venerate in tanti santuari. Le immagini delle Vergini Nere contraddistinguerebbero dunque luoghi particolarmente legati alla Dea Terra, gli stessi su cui, da sempre, gli uomini costruiscono i loro edifici sacri. Individuare il percorso delle suddette correnti terrestri è del resto uno dei settori di attività della nostra associazione per poterne utilizzare al meglio le eccezionali potenzialità vibrazionali che non sono una cosa astratta, ma vera e propria energia che pervade l’essere umano rafforzandolo e purificandolo. Poiché le correnti terrestri si diffondono nel sottosuolo come una vera e propria circolazione, esistono innumerevoli diramazioni, più o meno marcate, che è possibile individuare con i mezzi e le Guide adeguate. E’ come se avessimo una fonte di energia vitale inesauribile magari sotto i nostri piedi ma, a causa della nostra inconsapevolezza, non ce ne accorgessimo lasciando che scorra senza approfittarne. IL GRAAL Coppe cristiane e celtiche Il termine Graal deriva dal latino Gradalis, con cui si designa una scutella lata et aliquantulum prufunda (Helimand de Froidmont): una tazza, un vaso, un calice, un catino. Questi umili oggetti rivestono nella mitologia un nobile ruolo, sono infatti i simboli del grembo fecondo della Grande Madre, la Terra e, come l’inesauribile Cornucopia dei Greci e dei Romani, portano vita e abbondanza. La coppa della vita dei Celti è il “Calderone di Dagda”, portato nel mondo materiale dai Tuatha De Danaan, rappresentanti ultraterreni del piccolo popolo. Molti eroi celtici (tra cui Asterix, il famoso personaggio dei fumetti) hanno avuto a che fare con magici calderoni; nel poema gaelico “Preiddu Annwn” Re Artù andò a recuperarne uno addirittura negli inferi. La tradizione cristiana annovera almeno due sacri contenitori: il Calice dell’Eucarestia e - sorprendentemente - la Vergine Maria. Nella “Litania di Loreto” essa è descritta come Vas spirituale, vas honorabile, vas insigne devotionis, ovvero “vaso spirituale, vaso dell’onore, vaso unico di devozione”: nel grembo (vaso) della Madonna, infatti, la divinità era divenuta manifesta. Forse, quando alla fine del XII secolo Chretien de Troyes decise di introdurre nella materia Arturiana il motivo del Vaso Sacro, lo fece perché era al corrente dei miti celtici del Calderone, e l’argomento gli sembrò particolarmente in tema; o forse si trattò di una scelta casuale. Forse esisteva già una tradizione orale sul Graal, e Chretien si limitò a metterla per iscritto; forse (è l’ipotesi più probabile) elaborò in termini cristiani le antiche leggende sui contenitori sacri, o forse il Graal fu una sua geniale invenzione. Sta di fatto che - com’è accaduto per Re Artù - da otto secoli il Graal continua a stimolare l’immaginazione di generazioni di lettori: e questa, in un certo senso, è la prova tangibile del suo magico potere. Il Graal di Re Artù Il Graal Arturiano fu descritto per la prima volta da Chretien intorno al 1190 in “Perceval le Gallois ou le compte du Graal”; nel volgere di soli vent’anni (un tempo sorprendentemente breve rispetto a quelli, lunghissimi, lungo cui si sono sviluppate le saghe arturiane), esso era già perfettamente caratterizzato. Così il poeta francese racconta la sua apparizione: la scena si svolge nel castello del Re Pescatore, un personaggio su cui ritorneremo; qui il cavaliere Parsifal assiste ad una processione che scorre accanto alla tavola su cui verrà servita la cena. Per primo passa un ragazzo con una lancia insanguinata, poi due giovani con un candelabro, e infine: “un graal entre ses deux mains, une damoiselle tenoit (...) De fin or esmeréé etoit, prescieuses pierres avoit le graal de maintes manieres, de plus riches et de plus chères qui en mer et en terre soient. (Una damigella teneva un graal tra le mani (...) Era fatto d’oro puro, e c’erano nel graal molte preziose pietre, le più belle e costose che ci siano per terra e per mare). La parola Graal è utilizzata con il significato generico di Coppa (ma c’è da chiedersi come mai Chretien avesse fatto uso di quel termine già allora arcaico); il calice fa parte di un gruppo di oggetti ugualmente dotati di poteri mistici, e non ha comunque alcuna associazione con il sangue di Gesù. Solo nel successivo “Joseph d’Arimathie - Le Roman de I estoire du Graal”, un testo arturiano del cosiddetto “Ciclo della Vulgata” (dove però Re Artù non compare) scritto da Robert De Boron attorno al 1202, il Graal viene descritto come il Calice dell’Ultima Cena, in cui Giuseppe d’Arimatea aveva raccolto il sangue di Gesù crocifisso. De Boron lo chiama “graal” una volta sola, in un inciso (in verità un po’ slegato dalla continuity del testo) da cui si evince che la coppa aveva già una storia e un nome particolare prima di essere utilizzata da Gesù: “.. Io non oso raccontare, né riferire, né potrei farlo (...) le cose dette dai Grandi Saggi. Là sono scritte le ragioni segrete per cui il Graal è stato designato con questo nome ..”. Il “Joseph d’Arimarthie” fu continuato e integrato da un anonimo autore del XII secolo che, in “Le Grand Graal” introdusse alcuni nuovi elementi. Il Graal è associato (o “è” tout court) ad un libro scritto da Gesù Cristo alla cui lettura può accedere solo chi è in grazia di Dio. Le verità di fede che esso contiene non potranno mai essere pronunciate da lingua mortale senza che i quattro elementi ne vengano sconvolti. Se ciò, infatti, dovesse accadere, i cieli diluvierebbero, l’aria tremerebbe, la terra sprofonderebbe e l’acqua cambierebbe colore. Il libro-coppa possiede dunque un temibile potere. Il “Le Grand Graal” è collegato sia a tradizioni ebraiche (viene trasferito in Inghilterra in un contenitore identico all’Arca dell’Alleanza) sia islamiche: è infatti in relazione con una terra chiamata “Sarraz”, impossibile da situare storicamente o geograficamente (non è in Egitto, ma “... si vede da lontano il Grande Nilo ...”); il suo Re combatte contro un Tolomeo, mentre la dinastia tolemaica si estinse prima di Cristo), ma situata comunque in Medio Oriente. Da essa infatti - afferma l’autore - ebbero origine i Saraceni. Intorno al 1210, nel poema “Parzival”, il tedesco Wolfram Von Eschenbach conferì al Graal ulteriori connotazioni. Non si tratta di una coppa, bensì di “... una pietra del genere più puro (...) chiamata Lapis Exillis. Se un uomo continuasse a guardare (la pietra) per duecento anni, (il suo aspetto) non cambierebbe: forse solo i suoi capelli diverrebbero grigi ...”. Il Termine “lapis exillis” è stato interpretato come “lapis ex coelis”, ovvero caduta dal cielo: e, difatti, Wolfram scrive che la pietra era uno smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero e portato a terra dagli angeli rimasti neutrali durante la ribellione. La tradizione esoterica delle pietre sacre, tramiti fisici tra l’uomo e Dio, è tipicamente orientale: la Pietra Nera conservata nella Ka’Ba è l’oggetto più sacro della religione islamica; i seguaci della Qabbalah ebraica utilizzano il termine “Pietra dell’esilio” per designare lo “Shekinah”, ovvero la manifestazione di Dio nel mondo materiale; ancora più a oriente, l’urna incastonata nella fronte di Shiva simboleggia il “Terzo Occhio “, organo metafisico che permette la visione interiore. La ricerca del Graal Perché il Calice fu portato proprio in Inghilterra ? Dal punto di vista letterario la risposta è ovvia: là erano nati i miti di Artù e là, necessariamente, doveva svilupparsi la storia del Graal ad essi collegata. Ma i sostenitori della sua esistenza materiale avanzano altre ipotesi, in verità piuttosto ardite. Durante la sua permanenza in Cornovaglia, Gesù aveva ricevuto in dono una coppa rituale da un Druido convertito al cristianesimo, e quell’oggetto gli era particolarmente caro. Dopo la crocifissione, Giuseppe d’Arimatea aveva voluto riportarla al donatore ulteriormente santificata dal sangue di Cristo; il Druido in questione era Merlino, trait d’union tra la religione celtica e quella cristiana. Sia come sia, le peripezie subite dal Graal dopo il suo arrivo in Inghilterra variano in modo considerevole a seconda delle varie fonti. Estrapolando dalla Materia di Bretagna gli episodi più ricorrenti, è possibile tracciare schematicamente il seguito della storia. Giunto a destinazione, Giuseppe affida la coppa a un guardiano soprannominato “ricco pescatore” o “re pescatore” perché, come Gesù, ha sfamato un gran numero di persone moltiplicando un solo pesce. A seconda delle versioni, il Re Pescatore è Hebron o Bron, cognato di Giuseppe d’Arimatea e nonno (o zio, o cugino) di Parsifal. Nel Parzival di Wolfram Von Eschenbach è un Re chiamato Anfortas, la cui figlia sposa l’eroico saraceno Feirefiz e genera Prete Gianni. Secoli dopo, nessuno sa più dove si trovi il Re Pescatore: il Graal è, di fatto, perduto. Sulla Britannia si abbatte una maledizione chiamata dai Celti Wasteland (la terra desolata), uno stato di carestia e devastazione sia fisica che spirituale. Il Wasteland è stato scatenato dal “Colpo Doloroso”, ovvero da un colpo vibrato da Balin il Selvaggio con la Lancia di Longino (in altre versioni, da Re Varlans con la spada di Davide) nei genitali del “Re magagnato”. Il Maimed King si chiama Perlan, Pellehan, Pelles, Lambor, oppure è identificato con lo stesso “Re Pescatore”. Per annullare il Wasteland - spiega Merlino ad Artù - è necessario ritrovare il Graal, simbolo della purezza perduta. Un Cavaliere (Parsifal il “puro folle”, o Galaad il “Cavaliere Vergine”) occupa allora lo “scranno periglioso”, una sedia tenuta vuota alla Tavola Rotonda, su cui può sedersi (pena l’annientamento) solo il “Cavaliere più virtuoso del mondo”, colui che è stato predestinato a trovare il Graal. Ispirato da sogni e presagi, e superando una serie di prove perigliose (il “cimitero periglioso”, il “ponte periglioso”, la “foresta perigliosa”, il “guado periglioso”, ecc.), Parsifal rintraccia Corbenic, il Castello del Graal e giunge al cospetto della Sacra Coppa. Non osa però porre le domande “Che cos’è il Graal? di chi esso è servitore?”, contravvenendo così al suggerimento evangelico “Bussate e vi sarà aperto”. Il Graal scompare di nuovo. Dopo che il Cavaliere ha trascorso alcuni anni in meditazione, la ricerca riprende. Finalmente Parsifal (o Galaad) pone il quesito, a cui viene risposto. “E’ il piatto nel quale Gesù Cristo mangiò l’agnello con i suoi discepoli il giorno di Pasqua (...). E poiché questo piatto fu grato a tutti lo si chiama Santo Graal” (la frase, che comprende l’insolita etimologia grato-Graal è tratta da “La queste de Saint Graal”, romanzo di autore anonimo del “Ciclo della Vulgata” del 1220). Il Re Magagnato si riprende, il Wasteland finisce; Re Artù muore a Camlann e Merlino sparisce nella sua tomba di cristallo (o d’aria). Il Graal viene riportato a Sarraz (o nel regno di prete Gianni) da Parsifal e Galaad. Abbiamo escluso dal nostro immaginario canone le molte opere sul Graal posteriori al 1220, tra cui “The Idylls of the King” di Tennyson (1885), nel quale si racconta che Giuseppe d’Arimatea nascose il Graal nel Chalice Well di Glastonbury. Di un poco noto Graal non canonico italiano, del tutto indipendente dalla Materia di Bretagna si parla nella traduzione lucchese del “Volto Santo”. Nel VIII secolo un vescovo di nome Gualfredo si recò a Gerusalemme per visitare i luoghi sacri; là il pellegrino compì varie penitenze, digiuni ed elemosine. Fu allora che, per compensarlo della sua devozione, gli comparve un angelo, il quale lo invitò a cercare nella casa presso la sua: là avrebbe scoperto il volto del redentore, cui tributare degna venerazione. Così, nella dimora di un certo Seleuco, Gualfredo ritrovò il “Volto Santo”, un antico crocifisso scolpito in cedro del Libano dall’apostolo Nicodemo, lo stesso che aveva aiutato Giuseppe d’Arimatea a togliere dalla croce il corpo di Gesù. In una cavità dietro la croce si trovava un’ampolla con il sangue di Cristo. Croce e ampolla vennero caricate su una nave di grandezza straordinaria che, guidata dagli angeli e senz’altro equipaggio, attraversò il Mediterraneo in tempesta e approdò sulle coste della Lunigiana. Le reliquie furono disputate da Lucchesi e Lunesi, e si stabilì che il Volto Santo sarebbe stato portato a Lucca (dove è tuttora visibile nella cattedrale di San Martino), e l’ampolla sarebbe rimasta a Luni, dove se ne sono perse le tracce. Il destino del Graal Intorno al 540, dunque, stando alla “Materia di Bretagna”, il Graal fu riportato in Medio Oriente. Per secoli non se ne sentì più parlare finché, verso la fine del XII secolo, esso balzò (o tornò) improvvisamente alla ribalta. Come mai ? Cos’aveva ridestato l’interesse nei confronti di un mito apparentemente dimenticato ? La maggior parte degli studiosi concorda nel ritenere le Crociate l’avvenimento scatenante. A partire dal 1095, molti Cavalieri cristiani si erano recati in Terra Santa, ed erano entrati per forza di cose in contatto con le tradizioni mistiche ed esoteriche del luogo: sicuramente qualcuna di esse parlava del Graal, un sacro oggetto dagli straordinari poteri. Grazie ai Crociati, la leggenda raggiunse l’Europa e vi si diffuse. C’è anche chi ritiene che il Graal sia stato rintracciato dai Crociati e riportato nel Vecchio Continente. In tal caso vi si troverebbe ancora, ma dove ? Quelli che seguono sono i nascondigli più probabili... ... il Graal si trova nel castello di Gisors I Cavalieri templari avevano stretto rapporti con la setta degli Assassini, un gruppo iniziatico ismailita che adorava una misteriosa divinità chiamata Bafometto. Per alcuni il Bafometto altro non era che il Graal; prima di essere sgominati, gli Assassini lo avevano affidato ai Templari, che lo avevano portato in Francia verso la metà del XII secolo; e del resto Wolfram aveva battezzato “Templeisen” i cavalieri che custodivano il Graal nel castello di Re Anfortas. Se le cose fossero davvero andate così, ora il Graal si troverebbe tra i leggendari tesori dei Templari (mai rinvenuti) in qualche sotterraneo del castello di Gisors. ... il Graal si trova a Castel del Monte I Cavalieri Teutonici - fondati nel 1190 - erano in contatto sia con i mistici Sufi - una setta islamica che adorava il Dio delle tre religioni, ebraica, islamica e cristiana - sia con l’illuminato Imperatore Federico II Hohenstaufen, a sua volta seguace di quella dottrina. Tramite i Cavalieri Teutonici, i Sufi avrebbero affidato il Graal all’Imperatore, affinché lo preservasse dalle distruzioni scatenate dalle Crociate. In tal caso, il Graal si troverebbe a Castel del Monte, un palazzo a forma di coppa ottagonale edificato apposta per custodirlo. Wolfram sembra fornire un appoggio anche a questa tesi: nel suo Parzifal aveva infatti evidenziato il legame tra le religioni cristiana, ebraica e islamica. ... il Graal si trova a Tacht-I-Sulaiman Nella voce “Artù” è descritta l’ipotesi secondo la quale il sovrano inglese era un rappresentante dello Zoroastrismo. Ebbene, il Castello del Graal descritto - al solito - da Wolfram Von Eschenbach, è sorprendentemente simile a Tacht-I-Sulaiman, il principale centro del culto di Zoroastro. Qui, prima di venire dispersi e allontanati, i seguaci di Zarathustra adoravano il simbolico “Fuoco Reale”, fonte della conoscenza. Tacht-I-Sulaiman potrebbe essere dunque la mitica Sarraz, da cui il Graal (Il “Fuoco Reale”?) giunse, a cui ritornò, e dove forse ancora si trova. ... il Graal si trova nel Castello di Montségur Dopo che il culto di Zoroastro era stato disperso, alcune delle sue dottrine furono ereditate dai Manichei e, di seguito, dai Catari o Albigesi: questi ultimi erano giunti in Europa dal Medio Oriente, passando per la Turchia e i Balcani, e si erano stabiliti in Francia nel XII secolo. Nel 1244, dopo una lunga persecuzione da parte del Papato e dei francesi, furono sterminati nella loro fortezza di Montségur; se avessero portato con loro il Graal durante le peregrinazioni, ora esso potrebbe trovarsi insieme al resto del loro tesoro in qualche impenetrabile nascondiglio del castello. E’ di nuovo Wolfram a fornire un indizio in proposito: il “Castello del Graal” - quello simile a Tacht-I-Sulaiman - si chiama infatti “Munsalvaesche”, cioè “Monte Salvato” o “Monte Sicuro”. Negli anni ‘30 il tedesco Otto Rahn, colonnello delle SS e autore di Crusade contre le Graale La Cour de Lucifer, intraprese alcuni scavi a Montségur e in altre fortezze catare con l’appoggio del filosofo nazista Alfred Rosenberg, portavoce del partito e amico personale di Hitler: l’episodio fornì al romanziere Pierre Benoit, già autore del celebre L’Atlantide, lo spunto per il romanzo Monsalvat. Sull’attuale nascondiglio del Graal esistono altre teorie, se possibile ancor più fantasiose: ... il Graal si trova a Torino Importato forse dai pellegrini che si spostavano per l’Europa durante il Medioevo o forse dai Savoia insieme alla Sacra Sindone, il Graal sarebbe giunto nel capoluogo piemontese; le statue del sagrato del tempio della Gran Madre di Dio, sulle rive del Po, indicano, a chi è in grado di comprenderne la complessa simbologia, il nascondiglio della Coppa. ... il Graal si trova a Bari Nel 1087, un gruppo di mercanti portò a Bari dalla Turchia le spoglie di San Nicola, e in loro onore venne edificata una basilica. In realtà la translazione del Santo era solo la copertura di un ritrovamento ben più importante, quello del Graal. I mercanti erano in realtà cavalieri in missione segreta per conto di Papa Gregorio VII. Il Pontefice era al corrente del potere del Calice, ma non intendeva pubblicizzare la sua ricerca né l’eventuale ritrovamento, in quanto esso era un oggetto pagano, o comunque il simbolo di una religione ancor più universale di quella cattolica. Gli premeva di recuperarlo a Sarraz in quanto temeva che la sua presenza sul suolo turco avrebbe aiutato i Saraceni (in questo caso i turchi Selgiudichi) nella loro espansione ai danni dell’Impero Bizantino, e avrebbe nuociuto al programmato intervento di forze cristiane in Terra Santa a difesa dei pellegrini. Non è dato di sapere dove si trovava la coppa (che, forse, era passata per le mani di San Nicola nel VI secolo, e che gli avrebbe conferito la fama di dispensatore d’abbondanza) e chi comandò la spedizione; sta di fatto che, in una chiesa sconsacrata di Myra, i cavalieri prelevarono alcune ossa, poi ufficialmente identificate come quelle del Santo. Il recupero delle spoglie giustificò la spedizione in Turchia e l’edificazione di una basilica a Bari; la scelta di custodire il Graal in quella città anziché a Roma fu determinata da due motivi: da lì si sarebbero imbarcati i cavalieri per la Terra Santa (la prima crociata fu bandita sei anni dopo il ritrovamento) e il Graal avrebbe riversato i suoi benefici effetti; in più la sua presenza avrebbe protetto Roberto il Guiscardo, Re normanno di Puglie, principale alleato del Papa nella lotta contro Enrico IV. A ricordo dell’avvenimento, sul portale della cattedrale (edificata parecchi anni prima della divulgazione della “Materia di Bretagna) si trova l’immagine di Re Artù e un’indicazione stilizzata del nascondiglio; la tomba di San Nicola continua ad emanare un liquido chiamato manna che, oltre ad essere altamente nutritivo, come il Graal guarisce da ogni male. La natura del Graal Vale la pena, a questo punto, di tracciare un sunto delle caratteristiche del Graal descritte dal canone e dalle tradizioni celtiche fino al momento in cui esso raggiunge l’Inghilterra. Il Graal è un oggetto materiale e spirituale insieme. Non si conosce esattamente la sua natura: forse è una pietra, forse è un libro, forse un contenitore; è certo che permette di abbeverarsi (l’Ultima Cena), ma vi si può anche versare qualcosa (il sangue di Cristo crocefisso). Può guarire le ferite, dona una vita lunghissima, garantisce l’abbondanza, trasmette e garantisce la conoscenza, ma è anche dotato di poteri terribili e devastanti. La tradizione sull’esistenza di un oggetto con questi poteri è antichissima e diffusa in una vasta zona dell’Asia, del Nord Africa e dell’Europa; il Graal è forse stato identificato con nomi diversi (la “Lampada di Aladino”, il “Vello d’Oro”, l’”Arca dell’Alleanza”, la coppa “Amonga” dei Samartiani del Caucaso). In qualche modo ignoto Gesù ne è entrato in possesso. Le varie leggende a proposito del Graal (Tuatha De Danaan, Smeraldo di Lucifero, Occhio di Shiva, ecc.) concordano nel conferirgli un’origine ultraterrena. Basandosi su questi capisaldi, molti commentatori hanno dedotto la vera natura del Graal. Nell’interpretazione più realistica è una favolosa invenzione letteraria stimolata da miti antecedenti, attecchita su un terreno particolarmente fertile e arricchita di nuovi particolari da successive generazioni di autori; in quella più materialistica è semplicemente la coppa dell’Ultima Cena, preziosissimo oggetto d’antiquariato. Per gli antropologi è un corpus di dottrine elaborato attraverso i secoli (“... vi ci si può abbeverare e vi ci si può versare ...”), forse supportato fisicamente da un testo scritto. Per la tradizione cristiana, il Graal rappresenta l’evangelizzazione del mondo barbaro operata dai missionari (come Giuseppe d’Arimatea), stroncata dalle persecuzioni e ripresa da un gruppo di uomini di buona volontà guidati da un sacerdote (Merlino), o ancora la cacciata dall’Eden (il Wasteland) e la successiva redenzione grazie all’intervento di Gesù. Per gli esoteristi René Guenon e Julius Evola il Graal è il cuore di Cristo, potente simbolo della religione primordiale praticata ad Agharti, di cui Gesù sarebbe stato un esponente; per gli alchimisti rappresenta la conoscenza, e la sua ricerca equivale a quella della Pietra Filosofale o dell’Elisir di lunga vita. Per Carl Gustav Jung è un archetipo dell’inconscio; per Jesse Weston è un simbolo sessuale e di fertilità; per Walter Stein, autore di The ninth century and the holy Grail, il Graal è connaturato con l’intero pianeta: un generatore di energia spirituale, ma anche politica e socioeconomica. Per Rudolf Steiner è “... il simbolo degli eventi dell’epoca primitiva percepiti dalla sensibilità dell’animo ...”; quando, nel 1913, progettò l’edificio chiamato Gotheanum, il filosofo tedesco intese realizzare un nuovo “Castello del Graal”. Per Adolf Hitler è uno strumento magico con cui ottenere il potere assoluto; per gli autori di romanzi di fantascienza e per i fautori dell’ipotesi extraterrestre è un’apparecchiatura proveniente dallo spazio, o qualcosa che ha a che vedere con i terribili poteri della fusione nucleare. E, per i giornalisti Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln è ancora un’altra cosa.. Linea di sangue Una della possibili etimologie di “Graal” comprende l’attributo “San”: “San Graal” sarebbe l’errata trascrizione di “Sang Real”, ovvero “Sangue Reale”. Il sangue è, evidentemente, quello di Cristo contenuto nella coppa, ma per altri commentatori il termine sangue designa una dinastia (per Dion Fortune quella dei sacerdoti di Atlantide). La stirpe di cui i ricercatori Baigent, Leigh e Lincoln hanno scoperto l’esistenza dopo un’appassionata ricerca è quella di Gesù. Salvatosi dalla crocifissione, il Redentore avrebbe generato dei figli, da cui sarebbe nata la dinastia francese dei Merovingi. L’ipotesi, descritta in The holy blood and the holy Grail (il mistero del Graal, 1982) non si ferma qui. Certe misteriose carte rinvenute nel 1892 dal parroco Berenger Saunière nell’altare della chiesa di Rennes-Le-Chateau sarebbero state il punto di partenza per il ritrovamento di altri documenti i quali proverebbero che, lungi dall’essersi estinti nel 751, i Merovingi (e quindi gli eredi diretti di Cristo) sono ancora tra noi, accuratamente protetti da un’antica società iniziatica denominata “Priorato di Sion”, il cui scopo è ripristinare la monarchia al momento opportuno. Come i “superiori sconosciuti” di Agharti, i membri del Priorato - di cui sono stati Gran Maestri, tra gli altri, Nicolas Flamel, Leonardo da Vinci, Ferrante Gonzaga, Robert Fludd, Victor Hugo, Claude Debussy, Jean Cocteau - costituiscono una “sinarchia” o governo occulto che, ormai da quasi un millennio, influisce sulle scelte (politiche o d’altro genere) dei governi ufficiali. Purtroppo - fanno rilevare Baigent, Leigh e Lincoln nel seguito di The holy blood and the holy Grail, intitolato The messianic Legacy (L’eredità messianica, 1986), negli ultimi tempi il Priorato si è parzialmente corrotto, e alcune sue frange mantengono stretti contatti con la Mafia, la P2 e alcuni uomini politici italiani. IL MITO DI AGHARTI Agharti Mito antichissimo relativo alla capitale di un misterioso Regno sotterraneo che sorge sul principale incrocio delle correnti energetiche terrestri, o forse è Agharti stessa a generare questi fiumi di energia arcana che percorrono tutto il pianeta e si diffondono in superficie irraggiati dai megaliti, straordinarie costruzioni risalenti ad epoche remote fatte di enormi blocchi di pietre disposti in cerchio od in modo prestabilito onde richiamare occulte connessioni astronomiche e cosmiche. Agharti costituisce il mezzo, immobile ed immutabile, del Dharma Chakra, la Ruota della vita e della legge della tradizione Indù, alla cui rotazione è legato il destino dei mortali. In effetti alcuni studiosi localizzano in estremo oriente il luogo ove Agharti potrebbe essere ubicata. Agharti esiste sia sul piano fisico, sia in un’elevatissima dimensione mistica e solo pochissimi illuminati hanno la possibilità di accedervi. Per evitare che il male vi penetri, essa è tenuta isolata dal mondo della superficie da vibrazioni che offuscano la mente e rendono invisibili le porte di accesso: per questo motivo i non iniziati che l’hanno cercata non sono mai riusciti a trovarla. Meglio per loro: i comuni mortali che, per una ragione o per l’ altra, riuscissero a varcare uno dei suoi ingressi incontrerebbero lo stesso destino di un re della dinastia dei Malla che si perse con tutto il suo seguito nelle immense gallerie, o di un cacciatore che riuscì ad entrarne ed uscirne ed ebbe la lingua tagliata dai Lama affinchè non raccontasse cosa aveva visto. Esiste un solo popolo che è nato nelle profondità di Agharti e ora vive in superficie: è quello degli Zingari, che furono cacciati dal Regno sotterraneo. Di Agharti conservano la memoria genetica - lo riprova il loro vagabondare senza fine alla ricerca di una patria che non potranno mai rivedere - e certe facoltà magiche, come la capacità di predire il futuro e leggere la mano. Il Libeccio

 

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