tratto da HeraMagazine
Baalbek, eredità megalitica di un
popolo senza nome
di Massimo Bonasorte
Il complesso megalitico di Baalbek, in Libano, fu realizzato con l’ausilio
di strumentazioni tecnologiche? Furono davvero i romani a porre in opera il
Trilithion o, invece, continuarono a costruire su una struttura preesistente
realizzata da una sconosciuta civiltà? Tra ipotesi, prove archeologiche e
leggende facciamo il punto degli studi.
Le rovine di Baalbek si trovano a circa 90 km da Beirut, Libano, nella valle
della Beqa’a, ai piedi delle montagne dell’Antilibano in una valle in cui si
originano l’Oronte, a nord, e il Litani, che scorre da sud a ovest. Il sito
godeva, soprattutto in epoca romana, di grande importanza tanto che veniva
considerato una delle meraviglie del mondo. Ma cosa rende così speciale
questo luogo?
Ebbene tralasciando per un momento le implicazioni di ordine religioso, ciò
che rende straordinario questo complesso monumentale è la presenza di
numerosi megaliti, inseriti nella struttura del tempio di Giove. La
maestosità del tempio era tale, che gli imperatori romani arrivarono a
percorrere fino a 2.500 chilometri per consultarne l’oracolo e godere dei
suoi vaticini. Il sito di Baalbek pone molti interrogativi e gli studiosi
sono divisi tra coloro che considerano l’intero complesso come un prodotto
delle maestranze romane, coloro che, invece, ritengono che il podio su cui
poggia il tempio di Giove sia di origine fenicia, e infine coloro che lo
considerano ancora più antico, forse appartenente alla cosiddetta civiltà
megalitica di cui si ritrovano le tracce sparse in tutto il mondo,
dall’Egitto al Mesoamerica. Qualunque sia l’indirizzo d’indagine in tutti e
tre i casi rimane insoluta la spiegazione di come sia stato possibile
trasportate i megaliti dalla cava fino all’acropoli, sebbene il tragitto non
sia molto lungo. Le asperità del terreno e il peso dei blocchi complicavano
molto il trasporto, come fu possibile, quindi, mettere in sede gli enormi
blocchi in maniera così perfetta che tra loro non si può infilare neanche la
lama di un coltello? In epoca moderna uno dei primi ricercatori che se ne
occupò, nel 1851, fu il francese Louis Felicien de Saulcy, che in seguito
condurrà i primi scavi archeologici sistematici a Gerusalemme, il quale
visitando il sito si convinse che le rovine potevano appartenere a un tempio
pre-romano, ipotesi che raccolse nel libro intitolato Viaggio intorno al Mar
Morto, pubblicato nel 1854. Alla metà del XIX sec. l’archeologo francese
Ernst Renan, condusse le proprie ricerche nel sito, egli affermò che quando
giunse a Baalbek non incontrò elementi sufficienti in grado di convincerlo
che il sito fosse stato realizzato per ospitare un tempio pre-romano, e ne
ipotizzò invece un’origine fenicia. Attualmente si ritiene che il podio su
cui poggia il tempio di Giove fu costruito dai romani nello stesso periodo
della base del tempio, ma è davvero questa la verità?
La prima cosa che stupisce, visitando questo colossale complesso
architettonico è la sua estensione e la sua monumentalità, infatti, i tre
megaliti che compongono il cosiddetto Trilithion ovvero le “tre pietre”,
sono alti come una costruzione di cinque piani. Le pietre furono tagliate e
trasportate da una cava non molto distante, dove in un momento successivo,
fu ritrovato un quarto monolite, la cosiddetta Hajar el Gouble, Pietra del
Sud, oppure Hajar el Hibla, o pietra della partoriente, ancora imprigionata
nella cava e pronta per essere separata. Le sue dimensioni sono enormi: 21
metri di lunghezza, 10 di altezza e uno spessore di 5 m, il peso stimato è
di circa 1.200 tonnellate e si ritiene che venne lasciata in situ in seguito
a un errato calcolo delle dimensioni.
Leggende e archeologia
Nel complesso religioso di epoca romana esistono altri due templi dedicati
ciascuno a una divinità, in modo da realizzare la triade divina, Giove,
Venere e Mercurio. Dei tre è il tempio di Giove il più enigmatico. Tutta la
sua imponente struttura, infatti, è costituita da blocchi di pietra tra i
più pesanti che si possono incontrare al mondo. Nel muro di sudest esiste
una fila di nove blocchi di granito dove ciascuno ha un peso di 300
tonnellate, con una dimensione di 10 metri di larghezza per 4 di altezza e 3
di profondità. Nel lato opposto esiste un fila di 6 blocchi aventi le
medesime caratteristiche, che fanno da base ai tre giganteschi blocchi del
Trilithion. Le tradizioni locali che risalgono fino al Medioevo, specificano
che il complesso fu costruito durante il regno di re Salomone, sulla base
del confronto tra i blocchi megalitici e quelli che presumibilmente furono
impiegati per la costruzione del Tempio di Salomone. Le fonti arabe,
infatti, come Al Idrisi, viaggiatore e geografo arabo vissuto tra il 1099 e
il 1166, affermano proprio che “il Grande, (tempio) dalla strabiliante
apparenza fu costruito al tempo di re Salomone”. Della stessa convinzione
era anche Beniamino di Tudela, (ca. 1160) viaggiatore ebreo, che nel Sefer
massa’ot, visitando Baalbek scrisse: “Questa è la città che è menzionata
nelle scritture come Baalath, nei pressi del Libano, che Salomone costruì
per la figlia del Faraone. Il complesso fu costruito con pietre dalle
dimensioni enormi”. Una versione che si ritrova anche nel testo biblico di
Re, IX, 17 e 2 Cron. 8,6, in cui è menzionato il nome del re Salomone in
connessione con un sito che potrebbe essere identificato con l’antica
Baalbek, leggiamo, infatti: “Salomone riedificò Ghezer, Bet Horon inferiore,
Baalath, Tamàr, nel deserto del paese […]”. Esiste, dunque, una relazione
tra Baalbek e Baalath? Alcuni ricercatori sono molto diffidenti in questa
identificazione ed esitano a considerare valida l’equazione Baalath-Baalbek,
negando ogni relazione tra Salomone e le rovine, soprattutto perché se
veramente il re avesse costruito una simile opera così imponente stupisce
che non venga assolutamente menzionata nell’Antico Testamento. Questa
attribuzione a Salomone si è perpetrata anche nell’800 con Robert Wood,
autore di The ruins of Palmira and Baalbek, un’importante monografia
dedicata a queste misteriose rovine, il quale affermò: “Gli abitanti del
luogo, musulmani, ebrei e cristiani sono tutti convinti che Salomone costruì
sia Palmira sia Baalbek”.
Nei testi dei musulmani, dei cristiani maroniti e dei cristiani ortodossi,
quindi, non viene mai menzionata l’attribuzione ai romani della costruzione
del sito, ma raccontano che il primo insediamento di Baalbek fu costruito
prima del diluvio universale dallo stesso Caino, figlio di Adamo, che Yahwe
bandì dalla “terra di Nod”, per aver ucciso il fratello Abele. Una versione
confermata anche dal patriarca maronita Estfan Doweini, il quale riferisce
che “La tradizione ci dice che la fortezza di Baalbek è la costruzione più
antica del mondo. Caino la costruì nell’anno 133 della creazione, durante
una crisi di demenza feroce. Le diede il nome di suo figlio Enoch e la
popolò con i giganti che erano stati puniti dal diluvio per la loro
iniquità”. Secondo le sacre scritture la cittadella cadde in rovina al tempo
del diluvio e fu successivamente ricostruita dai giganti sotto il comando di
Nimrod, il grande cacciatore, e re del paese di Sennar (Genesi 10, 32).
Altre leggende narrano che Nimrod ribellandosi al suo dio costruì la torre
di Babele.
Infine, Al-Qazwini Zakariya ibn Muhammad, nella sua Cosmografia, narra che
Baalbek era connesso a Balkis, la leggendaria regina di Saba e a Salomone.
I musulmani riferiscono, inoltre, che il complesso fu costruito dai Djinn,
geni, o numi tutelari agli ordini di Salomone (cfr. HERA n° 26 pag. 27) per
la leggenda dell’anello di re Salomone). Il mistero che avvolge la
costruzione di Baalbek ha, però, solleticato anche le fervide fantasie di
alcuni ricercatori, come un certo David Urquhart, il quale era dell’opinione
che i costruttori impiegarono dei mastodonti, elefanti estinti, a mo' di gru
per spostare gli enormi blocchi (1).
Le fonti classiche
Dopo il periodo di regno di Salomone, i fenici si stanziarono nella zona,
divenendo i signori incontrastati della Siria, e scelsero Baalbek per
stabilire il tempio di Baal, dio del Sole. Poco si conosce di questi anni.
Nell’XI sec. a.C. le armate assire di Tiglatpileser I giunsero sulla costa
del Mediterraneo, ma leggendo gli annali assiri, il sito di Baalbek non è
mai menzionato tra le città fenicie, dunque, possiamo dedurne che almeno in
quel periodo, il sito non godeva di molta importanza politica o commerciale,
forse era solamente un piccolo centro religioso. Probabilmente, il tempio
era dedicato alla triade Baal, Astarte e Mercurio. Durante il periodo
tolemaico, tra il 323 e il 198 a.C., il sito di Baalbek fu identificato dai
greci con il nome di Heliopoli, la città del Sole, assumendo lo stesso
toponimo della più celebre città del Basso Egitto. A partire dal 27 a.C. la
zona passò sotto il dominio romano, e l’imperatore Augusto decise di
costruire il tempio Giove, il dio del Cielo, la più importante delle
divinità per i romani, come per i greci era Zeus. E’ probabile che tale
scelta rispondesse alla volontà di rimpiazzare l’antica divinità
preesistente, il semitico Baal, che possedeva caratteristiche in comune con
Zeus-Giove. Il toponimo di Baalbek, come molti studiosi affermano, ha il
significato di Signore della Beqa’a, oppure Signore della Città, a seconda
dell’interpretazione. Nei testi arabi spesso è identificata con Baal bikra,
o Baal del bue o dell’agnello, seguendo l’etimologia popolare che associa il
valore semantico al culto che veniva seguito nel tempio. In epoca romana,
l’oracolo di Baalbek era molto venerato tanto che l’imperatore Traiano, alla
vigilia della guerra con i parti, nel 115 scrisse ai sacerdoti di Baalbek
per ottenere un vaticinio. Anche durante il IV sec. Macrobio nei suoi
Saturnali dichiarò che “il tempio di Baalbek è il più famoso degli oracoli”.
Il tempio romano, come abbiamo già detto, fu costruito sopra un podio
preesistente costituito da enormi blocchi. Gli archeologi suggeriscono che
proprio tale piattaforma di pietra faccia parte di una struttura non finita,
appartenente a un tempio a cielo aperto, costruito dai sacerdoti seleucidi
al di sopra di un tell, una collina artificiale, dell’Età del Bronzo. Alla
metà del secondo secolo circa, fu aggiunto il cosiddetto tempio di Bacco, o
Mercurio. In direzione sud al di fuori della grande corte, sorge il tempio
più picciolo dedicato a Venere. In accordo con le teorie più accreditate
dalla comunità archeologica, la storia di Baalbek risale approssimativamente
a 5.000 anni fa. Gli scavi archeologici sembrano confermare tale ipotesi,
infatti, durante i lavori di scavo effettuati nelle vicinanze della grande
corte del tempio di Giove, sono venute alla luce tracce di insediamenti
databili all’Età del Bronzo Medio (1900-1600 a.C.), costruito su un livello
di frequentazione più antico che risale al 2900-2300 a.C.
Tecnologie impossibili
Il mistero di Baalbek risiede soprattutto nei suoi megaliti, non si
conoscono, infatti, i metodi impiegati per mettere in opera i blocchi,
posizionati a una considerevole altezza da terra, 6 metri, e abilmente
inseriti nella struttura del tempio. Prima che Roma conquistasse il sito e
costruisse l’imponente tempio di Giove, e molto prima che i fenici vi
stabilissero la sede del tempio dedicato al dio Baal, a Baalbek, esisteva
già una vasta costruzione formata da blocchi megalitici, forse il lascito di
una civiltà megalitica di cui se ne sono perse ormai le tracce. Il Tempio di
Giove era davvero imponente, le sue colonne erano alte fino a 32 metri, con
una larghezza pari a circa 4 metri. Purtroppo, solamente 6 di queste
splendide colonne hanno resistito ai secoli. Incredibile è l’imponenza dei
blocchi su cui poggia il tempio, che stando alle stime dei ricercatori,
attualmente nessun macchinario sarebbe in grado di mettere in opera. Su tale
argomento è stato chiesto a Bob MacGrain, direttore tecnico della Baldwins
Industrial Services, una delle più importanti industrie inglesi, di provare
a spostare con i propri macchinari la Pietra del Sole. Ebbene, si pensò di
utilizzare una gru, la Gottwald ak912, in grado di lavorare con pesi fino
1.200 tonnellate. Il macchinario, però, risultò inutile al momento del
trasporto, in quanto tali gru non possono muoversi durante il carico di un
tale peso, dunque, sarebbe stata necessaria una macchina dotata di cingoli.
E’ evidente quanto sia difficoltoso realizzare oggi una simile opera, e
certamente di più con l’impiego di strumentazioni non tecnologiche.
La spiegazione risulta molto ardua da individuare. Alcuni ricercatori, però,
hanno sottolineato che non esisterebbe alcun mistero a Baalbek, in quanto
gli enormi blocchi sarebbero stati trasportati utilizzando dei rulli di
legno, su cui sarebbero scivolati i megaliti, in un secondo momento
sarebbero stati messi in opera con l’ausilio di terrapieni. Purtroppo,
questa spiegazione rimane controversa se pensiamo che per realizzare un
simile trasporto, ammettendo che i rulli non si sgretolino sotto il peso,
occorrerebbero circa 40.000 uomini per muovere un solo monolite.
Quindi, il quesito: in che modo, furono poste in sede le enormi pietre, e
chi ne fu l’artefice?
L’attribuzione ai romani è valida per la costruzione del tempio di Giove, ma
per quale motivo avrebbero dovuto tagliare e spostare tali megaliti,
impiegando uno sforzo straordinario di uomini e di mezzi per spostarli,
quando avrebbero potuto tagliare i blocchi in dimensioni minori? In più, una
piccola imperfezione verticale nel monolite avrebbe potuto causare più danni
strutturali di un’imperfezione distribuita su più blocchi di pietra. Dunque?
A tale proposito nel 1980, lo studioso francese Friederich Ragette, nel suo
lavoro intitolato Baalbek, suggerì che l’impiego dei blocchi monolitici
rispondeva a una tradizione cananea, secondo la quale i podi dovevano
consistere al massimo di tre livelli di pietre, e visto che questo podio era
alto 12 metri, significava utilizzare necessariamente i monoliti. Ipotesi
molto discutibile. In più sempre Ragette, suggerisce che i romani tagliarono
nella cava i blocchi con piccozze di metallo e con l’impiego di una sorta di
macchinario da estrazione in grado di lasciare su molti blocchi segni di
incisioni circolari larghi fino a 4 metri di raggio. Un enigma nell’enigma,
in quanto oltre a dover spiegare in che modo i romani riuscirono a
trasportare i blocchi affiora il quesito di che genere di macchinario si
trattava in grado di lasciare segni circolari sulla pietra? Forse una sega
circolare?
Sulle modalità del trasporto dei blocchi sovente vengono chiamate in causa
le raffigurazioni presenti sui rilievi mesopotamici ed egizi, che secondo
alcuni ricercatori spiegherebbero in che modo furono spostati i megaliti.
Purtroppo dobbiamo osservare che tale spiegazione non sembra sufficiente, in
quanto sebbene i rilievi mostrino tale tipo di trasporto, raffigurano
blocchi singoli aventi un peso stimato all’incirca di 100 tonnellate, ovvero
un decimo del peso delle pietre del Trilithion. Maggiori perplessità
sorgono, inoltre, cercando di spiegare in che modo i romani riuscirono a
manovrare i monoliti. Ragette suggerì per la messa in opera l’impiego di
scavi e terrapieni, dove le rampe di terra compattata costruite su un piano
inclinato che saliva fino alla cima del muro servivano per far salire i
blocchi, che erano tirati da gruppi di operai disposti dall’altro lato del
muro. Si suppone che tale metodo sia stato impiegato per la realizzazione
del sito megalitico di Stonehenge. Per consolidare l’ipotesi romana, Ragette
menziona il matematico e ingegnere greco Erone di Alessandria, vissuto si
suppone tra il III e il I sec. a.C., celebre per le sue macchine idrauliche.
Nei suoi testi compaiono anche indicazioni per l’utilizzo di sistemi basati
su leve per il sollevamento e la messa in opera di enormi blocchi.
Purtroppo, però, l’unica versione di questo trattato che possediamo è una
traduzione araba, realizzata intorno all’860 d.C., da un abitante di Baalbek
chiamato Costa ibn Luka, che secondo Regette testimonierebbe una continuità
delle conoscenze tramandate negli anni. E’ tutto così semplice?
I romani riuscirono a trasportare a Roma gli obelischi come quello
proveniente dal Tempio del Sole a Heliopoli in Egitto, ora posto a Piazza
del Popolo, 235 tonnellate, oppure quello di Piazza di Montecitorio, 230 t,
che sebbene testimonino la capacità di trasportate grandi monoliti, le loro
dimensioni, sono assolutamente minori rispetto a quelle di Baalbek, e non
sembrano determinanti per spiegare in che modo il Trilithion fu messo in
opera.
In conclusione, possiamo certamente evidenziare che il sito di Baalbek
rappresenta per molti aspetti un vero e proprio enigma architettonico e
culturale, in quanto nulla si conosce dei suoi costruttori. Inoltre, il
mistero si complica analizzando la superficie della Grande Corte. Lo strato
superiore, infatti, presenta un livello di pietra vetrificata, un fenomeno
che forse fu provocato dall’esposizione a una sconosciuta fonte di calore, o
dall’impiego di trapani o seghe circolari che impiegavo il calore.
Purtroppo, tra le molte interpretazioni proposte nessuna sembra spiegare in
maniera esaustiva né le modalità, né gli strumenti impiegati e tanto meno
gli autori di questa monumentale struttura megalitica.
Note:
(1) Alan Alford, Il mistero della Genesi delle Antiche Civiltà, Newton &
Compton, 2000. |